Scrivo queste righe avendo in mente in particolare due eventi che si vanno profilando per il prossimo futuro. Il primo, l’adunanza prevista in ottobre a Cagliari per la 48° settimana sociale dei cattolici italiani, sul tema “Il lavoro che vogliamo”. L’altro, una sperimentazione sul cosiddetto “liceo breve” che il decreto agostano della ministra Valeria Fedeli allargherà, dall’anno 2018-19, a cento scuole italiane.
Il decreto ministeriale ha trovato immediatamente – come è stato notato in precedenti commenti su queste stesse pagine – schiere di detrattori e sostenitori, spesso anche a prescindere. Per certi versi paiono valide e interessanti alcune osservazioni dell’uno e dell’altro schieramento. Convince, ad esempio, l’opportunità di una sperimentazione di un percorso che ci avvicini ad altri grandi Paesi europei ed e occidentali, non solo per la durata del corso di studio ma anche per l’utilità di una sempre maggiore competenza linguistica di base. D’altronde paiono convincenti anche quelle osservazioni che richiamano alla necessità di tempi un po’ distesi per introdurre le giovani generazioni a studi non propriamente consonanti con l’anima del tempo (quelli classici in particolare).
Non convince, invece, quanto detto circa la necessità di accorciare i tempi della formazione di base per facilitare l’ingresso nel mercato del lavoro: i dati italiani sulla disoccupazione o sotto-occupazione giovanile dovrebbero farci evitare il ridicolo di affermazioni demagogiche circa la necessità di non “far perdere tempo” ai giovani. D’altra parte, però, credo che le questioni del lavoro c’entrino in qualche modo con un giudizio che si può formulare circa la sperimentazione ministeriale e quindi vorrei tornare all’altro fatto, quella Settimana sociale sul tema del lavoro che ha un sottotitolo – se possibile – ancora più bello del titolo: «[... lavoro] libero, creativo, partecipativo e solidale».
Cosa permette che il lavoro possa avere le caratteristiche suddette? Credo di poter rispondere senza tema di smentita che si tratta innanzitutto di affermare una nuova concezione del lavoro, diversa da quella diffusa nella rappresentazione comune di un lavoro come obbligo, adempimento, soggezione e competizione. Dico “nuova” concezione del lavoro, ma in realtà dovrei dire “diversa” perché in effetti questa concezione non è così nuova. È presente nella cultura occidentale da più di un millennio, parte integrante di una antropologia cristiana del lavoro che affonda la sue radici addirittura nell’Antico Testamento, che è confermata dalla persona di Gesù lavoratore, che viene sottoscritta da Paolo di Tarso e ribadita da Benedetto di Norcia (solo per citare alcuni autorevoli “testimonial”).
Mi si potrebbe obiettare che non sempre il lavoro per i cristiani ha avuto queste connotazioni in positivo, in particolare per quanto riguarda la dinamica conflittuale tra libertà e obbligazione (o soggezione). Non di rado il richiamo all’accettazione della «voluntas Dei» è stato usato strumentalmente dai potenti per negare le richieste di maggiore libertà dei lavoratori. Ciò detto, proviamo a tornare alla questione della scuola futura (a questo dovrebbero servire le sperimentazioni, a verificare la bontà di possibili opzioni future). Non credo che la scuola sia un’istituzione innanzitutto funzionale all’inserimento nel mercato del lavoro, credo però che la scuola serva a facilitare la crescita globale della persona e che in questa crescita il lavoro abbia parte notevole, dato che l’uomo è intrinsecamente lavoratore.
La facilitazione della crescita globale, cioè l’educazione, viene oggi perseguita dalla scuola prevalentemente attraverso l’insegnamento delle discipline: è il modello tradizionale, che pur con qualche aggiustamento non è mai stato davvero messo in discussione. In questo modello, purtroppo, trovano ospitalità sacche non piccole di “resistenza” al lavoro: sono pochi (ma ci sono) dirigenti e insegnanti che affermano esplicitamente che la scuola deve “proteggere” i giovani dal lavoro, per cui più tempo passano a scuola, meno ne passeranno in azienda; dai più si sente dire che le questioni del lavoro, in primis l’«alternanza scuola-lavoro», rubano tempo alla scuola. Si tratta di un giudizio più soft, ma nei fatti non meno ostile del primo.
Per i miei figli (e, quindi, per tutti) vorrei una scuola che formasse giovani a essere non innanzitutto lavoratori, ma amanti del lavoro, secondo l’accezione data dagli attributi proposti dalla Settimana sociale: libero, creativo, partecipativo e solidale. Avere giovani così aiuterebbe la nostra società a essere un luogo migliore, più umano. E aiutare i giovani a essere così renderebbe la nostra scuola un luogo migliore, più umano.
Il mio auspicio dunque, a meno di un mese dalla ripresa delle scuole, è che la prossima (ennesima) sperimentazione, non sia finalizzata tanto a “togliere” (anni) o ad “aggiungere” (competenze e/o discipline), quanto a sostenere il desiderio iscritto del cuore di ogni giovane uomo e donna di essere libero e creativo, di partecipare e di essere legato in un rapporto buono, di lavorare per un bene.
Stefano Gheno
Avvenire, 18 agosto 2017