UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Il nonno mi rubò il libro di scienze per insegnarmi a studiare la vita

Nel ricordo personale di un professore-scrittore lo spunto per guardare oltre la fine della scuola
12 Giugno 2023

«Cinque, quattro, tre, due, uno... Finita!». Una ragazza fa il conto alla rovescia. Poi il trillo della campanella; le urla, gli abbracci, il vociare a ondate dai corridoi. Le risate, le corse; tutti fuori, finalmente! Nelle aule con le finestre spalancate restano i banchi vuoti e le sedie fuori posto, echi di una vita potente, ma già passata. Ogni anno la fine della scuola è una grande festa, un grido di libertà. Lo era anche per me. Era la fine della fatica, il primo tuffo nell’estate, il periodo più bello dell’anno: i giri in bicicletta con gli amici, le fughe in campagna, le partite di calcio infinite in oratorio e poi i pomeriggi sonnacchiosi di agosto a leggere classici e a mangiare ghiaccioli con la tapparella abbassata, perché il condizionatore ancora non c’era. Era magica, quell’ultima campanella: così la vivevo.

Poi una volta, nei primi giorni di giugno, mio nonno mi rubò il libro di scienze delle medie. Mio nonno aveva profondi occhi azzurri da bambino e mani grandi e calde, con cui afferrava le mie manine di bimbo quando mi insegnava a camminare: è uno dei primi, vaghi ricordi della mia vita. Si chiamava Doroteo. Era nato nel 1924. Mio nonno resta uno dei più grandi intellettuali che abbia mai conosciuto. Il suo titolo di studio? La licenza elementare. Ma il grande intellettuale non è chi ha i titoli, ma chi ama la conoscenza. E lui la amava con tutto se stesso: aveva sempre un libro in mano, guardava un’infinità di documentari, sapeva osservare il mondo come fosse un miracolo, coi suoi occhi azzurri curiosi. Quando ero bambino, mi caricava sulla bicicletta, mi portava in giro e mi raccontava la natura come una grande storia: l’albero di sambuco, i papaveri rossi, i germani reali e le folaghe, il pioppo e la robinia.

Quei primi giorni di giugno di seconda media non trovavo più il libro di scienze. Lo avevo cercato ovunque, a casa e a scuola: niente. I miei genitori mi rimproverarono, dissero che non avevo la testa sulle spalle, che ero poco responsabile. Io facevo spallucce: potevo anche stare senza, mancavano solo pochi giorni alla fine della scuola: alla libertà, appunto. Un pomeriggio passai a trovare mio nonno e lui, sorridendo coi suoi occhi azzurrissimi, tirò fuori il mio libro. Mi disse che lo aveva preso la settimana prima e che lo aveva letto da cima a fondo. «L’hai letto anche tu?» mi chiese. Sbuffai. «Sì. No. Insomma, ho letto le parti che la prof ci obbliga a leggere…» risposi. «Ti ta se scemu» commentò lui, lapidario, in dialetto milanese. «Questo libro è una miniera d’oro!» aggiunse entusiasta. «Qui dentro ho scoperto cose incredibili! Per esempio: lo sai che ci sono stelle già spente, ma così lontane da noi che la loro luce ci mette così tanto ad arrivare fino a noi che noi le vediamo ancora accese? Ti rendi conto? Nel cielo possiamo guardare il passato! Ci pensi mai a quanto è immenso l’universo?».

Nel cielo possiamo guardare il passato: un noto astrofisico disse questa stessa frase in una conferenza tenuta nella mia scuola, molti anni dopo. Ripensai subito a quell’intellettuale di mio nonno, che aveva intuito tutto ciò dal mio libro di scienze delle medie. Ma quel giorno, quando ancora ero ragazzo, la luce delle stelle spente non mi entusiasmò più di tanto. Mio nonno se ne accorse subito e non mi diede tregua. «Studiare è un privilegio. Mi spiace che tu non te ne renda conto» disse. Io sbuffai. Lui non fece l’errore di rimproverarmi. Ma mi raccontò di sé, di quando era bambino. Il suo sogno era fare l’ingegnere. Adorava andare a scuola.

Così, finita la quinta elementare, aveva chiesto a sua madre di iscriverlo alle medie, che all’epoca non erano obbligatorie. Sua madre non ne aveva neanche voluto parlare: «Devi andare a lavorare nei campi», gli aveva risposto. E così mio nonno, a undici anni, aveva cominciato a raccogliere il granoturco. Ma la passione bruciante per la conoscenza non lo aveva mai abbandonato: si era buttato sui libri nel tempo libero, divorandone quanti più potesse. «Studiare è un privilegio» mi ripeté quel giorno, col mio libro di scienze in mano. «Perché se studi, scopri cosa ti appassiona.

E se scopri cosa ti appassiona, scopri chi sei. E se scopri chi sei, scopri cosa puoi regalare agli altri. E se scopri cosa puoi regalare agli altri, scopri la strada della felicità». Lo studio come scoperta di sé, la scuola come luogo di passione, la felicità come dono. Raramente nella vita ho sentito tanta saggezza concentrata in così poche frasi. Ma non erano solo parole: mio nonno le incarnava ogni giorno. Era una persona di grande generosità. Negli ultimi anni di vita, una malattia lo aveva costretto chiuso in casa e lui, con quelle sue mani calde da fabbro, si era messo a costruire modellini di barche. Li regalava a chiunque. Io lo rimproveravo: «Nonno, potresti venderli!» Ma lui rideva; replicava: «Ho poco da restare qui. Cosa me ne faccio dei soldi? Preferisco regalare le mie barche, così, un domani, qualcuno si ricorderà di me». Ne ho viste diverse di quelle barche, in diverse case, in questi anni.

L’ultima volta che lo vidi vivo, mio nonno era inchiodato a un tristissimo letto di ospedale, non capiva più nulla. Lo imboccai: gli diedi del gelato alla panna. Pensai che lui, quando ero bambino, mi aveva insegnato a camminare, e ora che stava per morire lo imboccavo come se il bambino fosse lui. Pensai che la vita è un cerchio misterioso e che il suo cerchio si stava chiudendo. «Ciao, Marco!» mi disse a un tratto. Quasi sobbalzai: ecco che per un istante era lucido, mi riconosceva! «Nonno! Come stai?» gli chiesi. Ma subito mi dissi che era una domanda stupida: stava per morire, come poteva stare? Ma mio nonno sorrise: il suo ultimo sorriso per me. Mi fissò con quei suoi occhi azzurri. Mi strinse forte la mano con la sua, quella grande mano da fabbro, calda come un tempo. «Sto benissimo» disse. «Guarda che bel tramonto».

Solo allora alzai gli occhi e vidi fuori dalla finestra uno splendido tramonto di maggio, con tutto il rosso che abbracciava i prati intorno all’ospedale e i palazzi più in fondo. Un tramonto che era già lì ad aspettarmi, ma che vidi solo perché mio nonno mi aveva aiutato, una volta di più, ad alzare lo sguardo. Quel giorno mio nonno mi diede il suo ultimo insegnamento: si può vivere lamentandosi di ogni cosa, oppure guardando la bellezza che in ogni istante ci è donata. Sono convinto che la capacità di vedere la bellezza e di esserne grato sempre, fino all’ultimo, gli sia venuta anche da quella sua immensa cultura da autodidatta. Mio nonno morì il giorno dopo, il 29 maggio del 2012, passando il testimone a mia figlia Beatrice, che proprio quel giorno compiva un anno.

Ripenso a mio nonno in questo finale di anno di scuola. Fanno bene le ragazze e i ragazzi a gridare la loro libertà. Auguro a ciascuno di loro di godersela questa libertà, di giocarsela al meglio. Ma auguro loro anche di sapersi girare indietro, magari per un solo istante; di guardare ai mesi appena trascorsi e di saper trovare in tutte quelle ore di lezione almeno una scintilla di bellezza, qualcosa per cui valga la pena sussurrare un grazie. Auguro loro di tuffarsi nell’estate con gli occhi di cielo di mio nonno, perché la bellezza è ovunque intorno a noi e merita di essere incontrata, vissuta, conosciuta. Anche studiata. Forse, allora, penseranno alla scuola, oltre che con un sacrosanto senso di liberazione, anche con una punta di nostalgia.

Marco Erba, Insegnante e scrittore

Avvenire, 11 giugno 2023