In Europa si parla di «Alternanza scuola– lavoro» (Asl) fin dagli anni ’70, ma la «via italiana» all’Asl è più recente e tortuosa. Il provvedimento più significativo è stato un decreto del 2005, che si collocava tra i decreti attuativi della «Riforma Moratti» e che prevedeva che gli studenti che avessero compiuto il quindicesimo anno di età potessero svolgere l’intera formazione tra i 15 e 18 anni, o parte di essa, attraverso l’alternanza di periodi di studio e di lavoro, sotto la responsabilità dell’istituzione scolastica o formativa. Si trattava di un’alternanza «a richiesta» degli studenti, che prevedeva una fortissima motivazione da parte del richiedente e la necessità – da parte della scuola – di mettere in atto strumenti organizzativi e pedagogico–didattici molto flessibili.
Con la cosiddetta «Buona scuola» l’Asl viene resa obbligatoria per tutti gli studenti del triennio degli Istituti superiori, ponendo anche dei vincoli di orario, ma aprendo ad una molteplicità di modalità con cui l’Asl può essere realizzata. Il valore principale di questo tipo di Asl, infatti, non è quello di far sì che gli studenti apprendano un mestiere, ma che vadano a «sporcarsi le mani» nella realtà, mettendo alla le proprie competenze personali e le proprie motivazioni. Esplorare per qualche decina di ore un contesto lavorativo, può aiutare i ragazzi a capire se è quello il contesto verso cui orientare i propri investimenti culturali e motivazionali. Ma è possibile anche immaginare una «alternanza della gratuità», facendo esperienza di contesti ad alto tasso di professionalità, ma non strettamente lavorativi, come possono essere le organizzazioni di volontariato o i contesti ecclesiali. Qualsiasi contesto operativo reale costringe i ragazzi a misurarsi con la realtà e a mettere alla prova se stessi in quello che diviene un compito di realtà, per eccellenza. Il fatto poi di confrontarsi anche con interlocutori esterni alla scuola (tutor aziendali) aiuta a superare il senso di autoreferenzialità che talvolta sperimentano i ragazzi all’interno dei contesti scolastici.
La sfida, però, non riguarda solo gli studenti, ma anche gli educatori che operano negli ambienti ecclesiali e che si rendono disponibili ad accogliere gli studenti per l’Asl. Il loro ruolo di «tutor aziendali» non è meramente burocratico, ma ha una valenza profondamente formativa, che richiede certamente tanto buon cuore e tanta buona volontà, ma anche competenze pedagogiche specifiche che andrebbero a loro volta coltivate e formate come tali.
Andrea Porcarelli
Bologna Sette, 12 agosto 2018