UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Un anno costituente per la scuola

L’economista Patrizio Bianchi: «Ma quella di prima non esiste più»
3 Dicembre 2020

«Non ci dobbiamo accontentare di tornare a scuola in presenza. L’obiettivo non può essere rientrare nella “scuola di prima”, perché quella scuola non esiste più e ha lasciato indietro troppi dimenticati». Quello che per molti è un fine, rientrare in classe, per Patrizio Bianchi è soltanto una condizione, necessaria ma non sufficiente, per cominciare a pensare alla scuola del futuro. Che, per l’economista, già assessore regionale all’Istruzione in Emilia Romagna e capo della task force voluta dalla ministra Azzolina la scorsa primavera, dovrà avere tre caratteristiche fondamentali: essere aperta, integrata nel territorio e inclusiva.

Professore, il suo ultimo libro si intitola “Nello specchio della scuola”: che immagine riflette?

Quella di un Paese che deve affrontare i propri nodi storici. Quella italiana, ben prima del Covid, era una scuola che lasciava a casa troppe persone, la scuola di un Paese con un tasso di istruzione tra i più bassi d’Europa e con un tasso di dispersione tra i più alti d’Europa. Un Paese con una competenza digitale che ci collocava all’ultimo posto dopo la Romania. Da oltre trent’anni siamo il Paese che cresce di meno in Europa. Siamo entrati in questa crisi con un tasso di crescita dello 0,3% su base nazionale. Significa che se alcune regioni del Nord crescevano all’1%, la maggior parte delle regioni del Sud era ormai in stagnazione protratta.

Il Covid ha accentuato le differenze tra i territori. Abbiamo 2,5 milioni di studenti in Dad e non si sa bene quando potranno rientrare. Quello che doveva essere un anno costituente rischia di essere un anno sospeso: come si esce da questo cortocircuito?

Lanciai il tema della scuola costituente già a febbraio. La scuola è arrivata del tutto impreparata a questa fase, con un corpo docente, che poi ha fatto i miracoli, ma che non era pronto e con strutture scolastiche ancora molto legate a modalità di insegnamento del secolo scorso: tutti in presenza e tutti seduti. Il tema non è, allora, tanto quello del ritorno a scuola così come eravamo, perché quel modo di fare scuola lasciava a casa troppi ragazzi. Si deve utilizzare questa fase per ridisegnare una nuova scuola adatta alla nostra epoca e capace di valorizzare le potenzialità dei ragazzi, per esempio nell’uso delle tecnologie. Questo non vuol dire che la scuola non deve essere in presenza. Ma che deve essere una scuola in presenza capace di utilizzare tutti gli strumenti che la nostra epoca ci sta offrendo e dando ai ragazzi più consapevolezza, più capacità critica, più visione. Questa è la vera sfida che abbiamo di fronte. Bisogna cogliere questa accelerazione per innovare profondamente. Quindi, l’idea di un anno costituente torna più prepotente che mai. L’idea cioè di un anno in cui tutto il mondo della scuola pensa al proprio futuro e non solo al proprio passato.

Quale bussola deve avere questo anno? Che fine hanno fatto le idee uscite dalla sua task force?

Molte di quelle idee le ho ritrovate nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Stanno riemergendo, pur con i tempi della pubblica amministrazione. Noi avevamo dato un’idea molto forte, che credo sia da recuperare e mettere al centro di un dibattito che non è ancora così pieno: non c’è sviluppo se non c’è scuola. Dove sviluppo vuol dire conoscenza diffusa, inclusiva e partecipata. È la matrice dello sviluppo e soltanto un’organizzazione scolastica può fare questo. C’è poi il grande tema dell’autonomia scolastica, che è il perno delle capacità di innovare la scuola, perché vuol dire riuscire a dare a tutti i ragazzi nel Paese gli stessi obiettivi. Dando a tutti la possibilità di raggiungerli secondo la condizione in cui si trovano. Tutti dobbiamo avere obiettivi da conseguire. Ma i dati dell’Invalsi ci dicono il contrario. Non soltanto abbiamo molta dispersione esplicita, cioè ragazzi che non finiscono la scuola. Ma anche molta dispersione implicita: un quinto dei giovani del Nord-Ovest, arrivato al diploma, non sa leggere in maniera adeguata un testo di Italiano. Al Sud e nelle Isole siamo al 50%.

Parliamo di Patti di comunità, altra vostra idea: qualcuno li ha realizzati?

Li ho visti a Napoli, nei luoghi più difficili. Dove le autorità locali, con il volontariato e la comunità si uniscono attorno alla loro scuola si ottengono dei risultati. I temi che noi abbiamo lanciato stanno diventando finalmente parte di uno sforzo comune di tutto il Paese, per ritrovare la propria scuola, che era stata perduta. Ma non a causa del Covid, negli anni precedenti. Nel 2009-2010, quando in tutto il mondo si cercava di uscire dalla prima grande crisi finanziaria della globalizzazione, tutti investivano in scuola - perché erano gli anni del salto tecnologico - tranne noi, che invece, proprio in quegli anni, abbiamo tagliato su scuola e ricerca. E questi sono i risultati.

Qual è, allora, l’auspicio per quest’anno scolastico già così tribolato?

Di cogliere questa fase per poter fare un passaggio in più: rientrare in una scuola che sia portante di un nuovo sviluppo del Paese. Bisogna ritrovare la forza di un grande movimento, che parta dal basso e ripristini l’idea che la scuola deve essere aperta, integrata nel territorio e inclusiva. Perché le persone sono diverse e dobbiamo permettere ad ognuno di avere una visione più grande. Oggi non si va a scuola per avere delle informazioni, ma per ritrovare un’idea di comunità. In un Paese che è molto diverso dal passato. E quindi questo credo sia l’anno costituente, non solo per la scuola ma per tutto il Paese. Mi auguro che questa pandemia ci permetta di fare tesoro anche delle disgrazie. Questo è il senso del rilancio che tutti stiamo cercando.

Paolo Ferrario

Avvenire, 3 dicembre 2020