Guardare alle «migliori pratiche» europee per aggredire il fenomeno della dispersione scolastica degli alunni immigrati, che in Italia rappresenta, non da oggi, un’emergenza vera. Dopo aver proposto, qualche giorno fa, le «classi collaterali di potenziamento», il ministro dell’Istruzione e del Merito, Giuseppe Valditara, è tornato anche ieri sul tema dell’integrazione degli alunni disabili, prime vittime della dispersione scolastica, con un tasso del 30,1% rispetto al 9,8% degli alunni italiani. «È un tema drammatico – ha ricordato il Ministro –. Non possiamo continuare con questo sistema fortemente penalizzante e discriminatorio nei confronti degli studenti stranieri. Le soluzioni? Copiamo le migliori pratiche europee». Detto che stiamo comunque parlando di studenti con cittadinanza non italiana, ma nati in Italia nella misura del 67,5%, va sottolineato come, negli ultimi anni scolastici, le iscrizioni di “stranieri” siano in continuo aumento. Quest’anno sono 869.336, il massimo degli ultimi cinque anni e oltre 70mila in più rispetto soltanto al 2022-2023.
«Per contrastare il fenomeno della dispersione scolastica degli alunni con backgroud migratorio è necessario investire di più nei servizi della prima infanzia: qualcosa è stato fatto con i fondi del Pnrr, ma dobbiamo investire di più, soprattutto nel reclutamento delle educatrici», commenta Camilla Borgna, ricercatrice di Sociologia dell’Università di Torino e autrice di Studiare da straniero. Immigrazione e diseguaglianze nei sistemi scolastici europei (Il Mulino, 2021). «Per garantire una reale parità di chances – si legge – le istituzioni scolastiche non possono limitarsi a offrire a tutti le stesse condizioni, ma devono necessariamente compensare gli svantaggi iniziali, permettendo a tutti gli studenti e le studentesse di sviluppare il proprio potenziale».
In alcuni Paesi europei, lo svantaggio iniziale degli alunni immigrati è compensato dal precoce avviamento scolastico. «In Gran Bretagna – spiega Borgna – la scuola dell’obbligo comincia a 4 anni, ma già a 3 anni i servizi coprono tutte le famiglie, facendo della scuola un vero luogo di inclusione. In Italia, invece, come sappiamo bene, i servizi per la prima infanzia, nella fascia 0-3 anni, scontano sia differenze territoriali che socio-economiche, che penalizzano in maniera molto pesante proprio le famiglie immigrate». Anche la Norvegia, tra i Paesi del Nord Europa, si distingue per una efficiente rete di servizi per la prima infanzia. Pure a Oslo e dintorni, inoltre, l’obbligo scolastico comincia dai 4 anni. Un secondo fattore di “fidelizzazione” degli alunni immigrati nel Regno Unito è l’età in cui avviene la differenziazione dei percorsi scolastici. In Italia la scelta della scuola superiore si fa a 14 anni, mentre in Gran Bretagna - ma anche in Spagna, per restare a un Paese più affine al nostro - il percorso scolastico è comune a tutti fino a 16 anni, età in cui si sceglie l’istruzione superiore. «A 13-14 anni la scelta è, in buona parte, delegata alla famiglia e viene molto influenzata sia dallo status migratorio che socioeconomico del nucleo, aumentando il rischio di fallimento e, quindi, di abbandono – sottolinea Camilla Borgna –. Posticipare di appena qualche anno il momento della scelta, consente di accompagnare per più tempo gli alunni, abbattendo il tasso di abbandono».
Il terzo fattore che permette al Regno Unito di contenere la dispersione è una minore «segregazione scolastica», che si traduce nelle cosiddette “scuole-ghetto”, un fenomeno ancora piuttosto grave in Italia, soprattutto nelle periferie delle grandi città. «Va anche detto – riprende la sociologa torinese – che, rispetto all’Italia, gli immigrati in Gran Bretagna partono con il vantaggio di conoscere già la lingua. Soprattutto i cittadini provenienti dai Paesi del Sud Est asiatico e dall’Asia Orientale registrano addirittura un vantaggio e da queste comunità escono tante storie di successo. Più fatica fanno, invece, gli alunni provenienti dai Paesi caraibici».
Paolo Ferrario
Avvenire, 12 marzo 2024