UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

«Sono vittime della videomania. Ora è necessario educare al digitale»

Lo psicoterapeuta Matteo Lancini, presidente del “Minotauro” di Milano, commenta i recenti fatti di cronaca
17 Giugno 2023

Ora è facile puntare il dito contro le trasgressioni giovanili via web. Buttare tutta la colpa addosso ai social, a Internet, a You Tube. Mettere al muro tutte le follie della rete dove chi la fa più grossa ha il maggior numero di follower e guadagna di più. Proprio come i cinque youtuber che correvano a velocità folle su un Suv Lamborghini per realizzare video da postare sul loro gruppo di You Tube. Colpevoli? Dal punto di vista della legge lo accerteranno le inchieste giudiziarie. Matteo Lancini, psicologo e psicoterapeuta, presidente della fondazione “Il Minotauro” di Milano, tra i più importanti centri per la cura degli adolescenti, non minimizza la responsabilità dei ragazzi ma sposta il centro della riflessione. «Abbiamo creato una realtà dissociata in cui quello che conta è il successo. E dove questo successo si può ottenere in qualunque modo. Basta che l’azione sia clamorosa e che venga documentata sul web. Tutto va bene. Dal tiktoker che si finge morto e poi filma il proprio funerale a tutte le altre trasgressioni senza limiti».

Sbagliato, certamente. Ma se ci limitiamo alla solita operazione di condanna senza cercare di comprendere i motivi di questi comportamenti, rischiamo di stracciarci inutilmente le vesti. Chiediamoci allora qual è il contesto culturale in cui si muovono e crescono i nostri ragazzi. Un contesto in cui i bambini, fin dalla scuola materna, sono bersagliati dalla videomania, quasi un’ossessione per fissare tutto in immagini che poi finiranno per essere dimenticate o, nella peggiore delle ipotesi, affidate al limbo della rete.

Lancini che sul tema ha scritto un saggio da qualche giorno in libreria, Sii te stesso a modo mio (Raffaello Cortina Editore), parla di società dell’estremizzazione di se stessi, che non si limita a chiedere a bambini e adolescenti di nascere e crescere secondo aspettative ideali e competitive, ma - spiega «iperidealizza il sé in nome della propria fragilità adulta, fino a chiedere alle nuove generazioni di crescere secondo un mandato paradossale».

In altre parole, se noi adulti per primi respiriamo al ritmo di Internet, continuiamo ad attribuire ai social un peso specifico esorbitante, alimentiamo con le nostre abitudini digitali modelli che parlano di individualismo, di competitività esagerata, di percorsi massmediatici contraddittori, come facciamo poi ad indignarci quando si verificano episodi come quello di Roma? Che senso può avere pretendere dai ragazzi il rispetto di regole che non solo non hanno più fondamento ma sono contraddette dai modelli sociali che noi adulti abbiamo accettato e fatto nostri? Forma dissociativa o ipocrisia? Forse l’una e l’altra. Secondo Lancini comportamenti in molti casi «drammaticamente inconsapevoli» che però hanno conseguenze importanti sul modo di crescere e affrontare il percorso identitario di ragazze e ragazzi a cui vorremmo vietare ciò che, nel bene o nel male, fa parte della nostra e della loro vita.

La tesi dell’esperto è chiara: non riuscendo, noi adulti, a riannodare i fili di una complessità che ci sfugge, pensiamo di risolvere la questione a colpi di divieti. C’è tutta una scuola di “allarmisti professionali” che non smettono di «proporre programmi preventivi e educativi che puntano ad allarmare gli adulti, genitori e insegnanti, sulle conseguenze nefaste di Internet e della rete, sui limiti e sui divieti». Perché sarebbe sbagliato? «Perché è l’ennesimo segnale di una fragilità adulta che proprio sul digitale rivela il suo lato peggiore. Questi allarmi non solo non hanno mai funzionato, ma rischiano di alimentare la percezione nelle nuove generazioni di un’adultità inconsistente, sempre meno significativa e autorevole. Vietare, limitare, togliere – osserva Lancini - sono alibi che spostano il problema dall’urgenza di educare e ad aiutare a gestire i rischi e la complessità di una società ipertecnologica».

Ecco la grande questione. È urgente comprendere che l’educazione al digitale non passa per divieti e regolazioni di orari, ma da una revisione globale del nostro approccio a una tecnologia che è impossibile da arginare con la logica del filo spinato. «Offriamo ai nostri ragazzi esempi di coerenza, promuoviamo un utilizzo ragionevole del digitale per costruire cultura e conoscenza e spieghiamo ai ragazzi che quella è una strada premiante, non quella delle trasgressioni inventate per il gusto di racimolare follower».

Ma poi anche noi adulti dobbiamo avere il coraggio di razionalizzare il nostro approccio. Come? Tra le tante possibilità Lancini lancia una prima proposta: eliminare i gruppi scolastici di whattsapp tra genitori: «Ma è possibile che il rapporto con la scuola sia “governato” da queste procedure?». Occorre insomma alzare il livello della comprensione digitale e non aver paura di affrontare questioni difficili, come per esempio l’intelligenza artificiale.

«Ogni agire dell’adulto, oggi più che mai - conclude Lancini - richiede che dietro all’azione educativa ci sia un pensiero, un ragionamento non solo razionale ma anche affettivo».

Luciano Moia

Avvenire, 16 giugno 2023