UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

«Si parta dalle superiori. Serve una nuova didattica»

D’Alonzo (Cattolica): il problema non è la disumanizzazione, ci vuole invece uno scatto di consapevolezza
12 Febbraio 2024

La scuola, almeno fino alle superiori, deve essere un vestito cucito sulle misure di ogni studente. Così la pensa Luigi D’Alonzo, professore ordinario di pedagogia all’Università Cattolica di Milano. Ma l’università, della cui freddezza si lamentano migliaia di studenti, è un’altra cosa.

Professore, gli universitari sono più depressi e in ansia rispetto ai coetanei lavoratori. C’è un problema di disumanizzazione negli atenei italiani?

Il problema non è la disumanizzazione. Ci vuole uno scatto di consapevolezza: l’università non è la scuola secondaria, non può esserci lo stesso sostegno. E non tutti riescono a sopportare le richieste di autonomia e di autodeterminazione. Del resto, come fa un professore a curare le relazioni interpersonali con tutti e con ciascuno quando ha a che fare con una platea di 80 persone e più?

Il nostro non è, come accusano molti studenti, un modello ancora troppo legato al merito?

Parliamo chiaro: un ponte deve stare in piedi e un medico deve saper distinguere un problema alla milza da uno al cuore. Non possiamo scherzare su questo. Il problema non sta nel merito ma nella competenza e questa esige il riconoscimento dei propri limiti. Conoscendoli possiamo anche migliorarli, ma non possiamo fare tutto nella vita. Lo sapevano anche i greci.

Eppure, certi universitari con disturbi dell’apprendimento faticano a tutelarsi in sede d’esame. C’è del lavoro da fare nella formazione dei docenti?

In Italia sono 40mila gli studenti con disabilità e con Dsa, e moltissimi hanno esperienze edificanti e positive. Dobbiamo stare attenti: il problema non è la mappa concettuale a supporto dell’esperienza d’esame, ma l’eccesso di mappe. Occorre crescere rendendosi sempre più autonomi da questi strumenti. Lo dico per il bene dei ragazzi. Che ci sia un lavoro da fare è indubbio ma, di fronte alle certificazioni, oggi le attenzioni ci sono eccome.

A quali attenzioni fa riferimento?

Ai servizi per l’inclusione e per l’integrazione, che si stanno sempre più allargando ai bisogni educativi speciali. Non si parla solo di ragazzi con disabilità o disturbi specifici dell’apprendimento, ma di tutti gli studenti con bisogni speciali. Ormai a ognuno di loro vengono offerti supporti relativi alle abilità di studio e riabilitativi, inoltre viene garantita la mediazione fra servizi e docenti. A mio parere, tutti gli atenei hanno preso coscienza di queste problematiche poiché non è più possibile ignorare la fragilità di molti studenti e studentesse.

Questa fragilità ha radici nella scuola dell’obbligo?

Ovviamente non è responsabilità solo della scuola, tuttavia questa mostra evidenti segni di difficoltà. Gli insegnanti spesso non sanno come agire stretti fra le “esigenze curriculari”, i bisogni sociorelazionali e la complessità del mondo in cui viviamo. I linguaggi cambiano vertiginosamente e gli strumenti comunicativi diventano presto obsoleti. Le modalità trasmissive tradizionali non funzionano più con i ragazzi, dobbiamo acchiapparli in qualche modo o sfuggono, manifestando anche senza freni il loro malessere.

Che modo suggerisce?

Serve una didattica più attiva, collaborativa e laboratoriale. In più, in classe hai 25 allievi ma non sono tutti uguali: hanno abilità e competenze differenti e occorre soddisfare pedagogicamente tutte le loro esigenze. Se la scuola, anche la secondaria, non si pone come obiettivo l’autonomia e la promozione umana degli studenti, si aggancia a cose inutili come il voto. Occorrerebbe arrivare all’università sapendo ormai come studiare, come apprendere, come processare contenuti e abilità. Ma non sempre è così. Il disagio giovanile in questo momento è molto ampio.

Andrea Ceredani

Avvenire, 11 febbraio 2024