Nel 1979 usciva negli Stati Uniti un saggio del sociologo Neil Postman (1931-2003), destinato a diventare celebre: Teaching as a Conserving Activity. Potremmo tradurre quel titolo con qualcosa come «L’insegnamento come attività di conservazione». Il libro di Postman fu pubblicato due anni dopo anche in Italia, da Armando Editore, con un titolo diverso: Ecologia dei media. La scuola come contropotere (ora in una nuova edizione a cura di Giampiero Gamaleri, Armando, pagine. 126, euro 12). Quell’idea di “conservazione” veniva lì veicolata dal sottotitolo (in cui si parla di “contropotere”), mentre il titolo principale (Ecologia dei media) alludeva a una delle tematiche centrali del volume, vale a dire l’invadenza dei moderni mass media nel mondo occidentale (allora si trattava soprattutto della televisione, essendo ancora di là da venire i cosiddetti new media e gli odierni social). Al punto che fin dal 1971 lo studioso aveva istituito alla New York University (dove insegnava), una cattedra così chiamata, che terrà per tutto il resto della sua vita.
«L’istruzione cerca di conservare la tradizione mentre l’ambiente esterno è innovatore», scriveva Postman. È questo un male? Non necessariamente. Perché “conservare” ciò che è stato tramandato significa anche “resistere” alle attrattive, effimere e superficiali, di quella che sempre Postman chiamava la «società adescante», tutta appiattita sull’hic et nunc di una sorta di eterno presente privo di spessore e di profondità. Da qui l’idea che, resistendo, la scuola possa configurarsi – appunto – come un “contropotere”, recuperando le radici etiche e cognitive su cui basare il futuro dei giovani: aiutandoli così a orientarsi in un mondo globalizzato e sempre più interconnesso.
Ma oggi in Italia è possibile concepire la scuola in questi termini? La domanda è legittima, e la risposta, purtroppo, sembra virare più verso il negativo che verso il positivo. Questo perché tutte le riforme e riformine più recenti vanno in una direzione che lascia poco spazio alla discussione in merito ai paradigmi pedagogici assunti in questi ultimi anni. Scelte programmatiche e metodologiche fondamentali (che cosa insegnare e come insegnarlo) sono state spesso imposte in maniera autoritaria, attraverso leggi votate frettolosamente (magari ricorrendo alla fiducia per evitare ogni dibattito parlamentare, come è accaduto al Senato con la legge 107/2015, la cosiddetta “Buona Scuola”) o addirittura con semplici circolari ministeriali che, sotto l’apparenza di fornire indicazione pratiche su specifiche questioni, hanno l’effetto di scalzare e sovvertire modelli didattici consolidati. A vantaggio di un “nuovo che avanza”, senza però la minima disamina critica e, soprattutto, senza alcuna forma di coinvolgimento degli addetti ai lavori, vale a dire gli insegnanti, il cui ruolo viene così svilito al rango di quello di semplici esecutori di decisioni calate dall’alto.
Ciò viene lucidamente raccontato nel saggio dello storico Mauro Boarelli, Contro l’ideologia del merito (Laterza, pagine 152, euro 14), in cui si mostrano le radici di certi concetti sempre più presenti nell’innovazione didattica stabilita per legge: la misurabilità, le competenze, il capitale umano, la meritocrazia. Tutte idee transitate dal mondo dell’economia e dell’azienda a quello dell’educazione e della scuola.
Soffermiamoci, per esempio, sulla “didattica per competenze”, promossa, sempre più, dall’Unione Europea a partire dall’inizio degli anni Novanta, fino alla promulgazione, nel 2006,del Quadro delle “competenze chiave”. Questo e altri documenti sono chiaramente accomunati da una visione utilitaristica della conoscenza. Una di queste competenze è definita “imparare a imparare”. Ora, nessuno nega che sia essere buona cosa trasmettere ai giovani l’idea che l’apprendimento è un processo che non si esaurisce con la scuola ma che dovrà continuare lungo tutto l’arco della vita. Tuttavia si capisce anche che ciò è funzionale a un mercato del lavoro che richiede dosi sempre maggiori di flessibilità: anziché portare nella scuola un dibattito sui modelli economici e produttivi esistenti, magari per criticarli nelle loro storture e per pensare di migliorarli in relazione ai diritti delle persone, si preferisce spingere gli individui ad adattarvisi fin dalla più giovane età, cioè sin dagli anni della scuola. Scrive Boarelli: «Non si tratta di “imparare a imparare” come occasione di sviluppo culturale, senza immediati fini utilitaristici, ma di apprendere una forma specifica di comportamento: l’adattamento alle esigenze dell’impresa e alle forme specifiche della “flessibilità” di cui essa ha bisogno ». E aggiunge: «Le competenze giocano un ruolo determinante in questo processo di subordinazione alla visione del mondo economico, perché spingono i sistemi educativi ad abbandonare la costruzione di saperi critici in favore dell’organizzazione di saperi strumentali». Tendenze di questo tipo si esprimono in concreto in pratiche come quella dei test Invalsi, che elevano a feticcio il mito della misurabilità dell’apprendimento. Prove che hanno l’effetto di chiudere, uniformare, banalizzare e decontestualizzare la conoscenza. Una conoscenza che, nel momento in cui viene chiesto allo studente di individuare la risposta giusta (preconfezionata) tra quelle già fornite dall’estensore della prova, viene deprivata di ogni dimensione critica, creativa o anche solo collaborativa, con la conseguenza di impedire qualsivoglia sviluppo di un pensiero divergente. «Il “capitale umano”, le “competenze” e la valutazione standardizzata sono parti di uno stesso sistema concettuale che ingloba la vita sociale nella sfera produttiva», conclude Boarelli, e (aggiungiamo noi) la scuola in una visione aziendalistica ed economicistica del sapere e della cultura.
Sono, queste, preoccupazioni condivise anche dagli autori degli scritti raccolti da Piero Bevilacqua nel volume, da lui curato, Aprire le porte. Per una scuola democratica e cooperativa (Castelvecchi, pagine 192, euro 17,50). In un intervento dedicato alla “scuola delle competenze”, Anna Angelucci denuncia l’impossibilità di impostare un dibattito serio e aperto sui cambiamenti in atto: «Qualunque resistenza, ascrivibile al tentativo di esercitare, sul piano etico, forme di libero arbitrio o, sul piano culturale, spazi di libertà nella concezione della cultura e nella riflessione sul nesso insegnamento/apprendimento o magari, sotto il profilo metodologico, possibili opzioni di falsificabilità di una teoria che ci viene imposta come una teleologia, deve essere, e viene, abortita sul nascere».
Il sospetto è che le riforme della scuola siano – di fatto – pezzi della riforma del mercato del lavoro. E il potere economico è così forte, autoritario e repressivo (non a caso, già nei primi anni Settanta, Pasolini negli Scritti corsari scriveva la parola “Potere” sempre con l’iniziale maiuscola, intendendo quello dell’economia e dell’industria, cioè del neocapitalismo avanzato) da non lasciare alcuno spazio per una contestazione al suo pensiero unico. Chi si oppone ad esso viene tacciato di passatismo, misoneismo, disfattismo. L’insegnante che rifiuta di “aggiornarsi” è la bestia nera di questa retorica del nuovo, che canta le magnifiche sorti e progressive della scuola digitale, della didattica per competenze, dell’alternanza scuola-lavoro (altro fondamentale tassello, quest’ultima, di tale asservimento della scuola all’azienda). Mentre forse, in realtà, sta solo provando a mettere in atto forme di resistenza civile, vedendo ancora nella scuola una possibilità di “contropotere” (rispetto allo strapotere del più bieco neoliberismo).
Roberto Carnero
Avvenire, 15 maggio 2019