UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Roccucci: «Posizione ragionevole. C’è una diplomazia riservata»

Lo storico e studioso del mondo russo: «Serve cultura storica per comprendere la complessità di quelle terre»
5 Aprile 2022

Adriano Roccucci, classe 1962, professore ordinario di storia contemporanea all’Università Roma Tre e membro della Comunità di Sant’Egidio, è studioso del mondo russo, nella sua accezione più ampia, da oltre trent’anni. «Già da giovanissimo avevo un’attrazione per la cultura russa – racconta Roccucci – poi negli anni in cui facevo il dottorato, gli anni della perestrojka, dell’apertura degli archivi in cui si iniziavano a intravedere grandi cambiamenti nel blocco comunista, fu un mio maestro che intercettando i miei interessi mi suggerì di studiare il russo e di occuparmi anche a livello accademico di quella realtà. E così è stato».

Professore, il Papa sull’ipotesi di un viaggio a Kiev, dopo aver ribadito che sarebbe disponibile ad andare, ha usato però parole di grande cautela: «Non so se si potrà fare, se è conveniente...».

Mi sembra una posizione molto ragionevole.

In una situazione dove anche la Svizzera sembra aver perso la sua storica neutralità, aderendo alle sanzioni verso la Russia, la Santa Sede può aver un ruolo diplomatico, di mediazione in questa situazione bellica?

Sì, ha ragione: i Paesi neutrali, gli spazi di neutralità sono necessari a tutti, anche alle parti che si combattono. È un grosso problema se vengono meno. Penso che la Santa Sede abbia innanzitutto il ruolo di ricordare il valore supremo della pace e la disumanità e la follia della guerra. Quello che Francesco sta facendo. Ed è un ruolo di grande importanza a livello di opinione pubblica internazionale. Dal punto di vista diplomatico, sappiamo che la Santa Sede si sta muovendo, ma le iniziative più efficaci sono spesso quelle meno visibili. Francesco stesso ha ricordato che per prudenza e riservatezza non tutto si può pubblicare di ciò che è in atto. Vediamo all’opera la mediazione della Turchia, c’è stata quella che ha tentato Israele, che non sappiamo se continui ancora, ma potrebbe essere: più canali di questo tipo ci sono, più si può sperare di arrivare a un risultato.

La Santa Sede sembra avere oggi meno russofoni fra le sue fila rispetto a un tempo. Ci sono le risorse per decifrare e muoversi in scenari così complessi?

Non ne farei tanto una questione di lingua, però se la mette sul piano degli strumenti culturali per comprendere il mondo russo e dei popoli slavi tocca un problema importante, che riguarda più ampiamente le classi dirigenti europee e occidentali, e anche quelle ecclesiastiche. C’è spesso una difficoltà a cogliere la complessità di quest’area del mondo, tra Ucraina e Russia. La guerra è anche una brutale semplificazione e sembra facile leggerla, con categorie in bianco e nero. C’è un deficit di cultura e di cultura storica in particolare. Sembra un vezzo da studiosi sottolineare questo aspetto mentre cadono bombe e scorre il sangue, ma non lo è. Qualsiasi processo negoziale necessita della capacità di entrare nella testa dell’altro. E per farlo c’è bisogno di cultura e di storia. Per quanto riguarda la Chiesa cattolica, mi pare ci sia stata negli ultimi due decenni una diminuzione di attenzione culturale verso Russia, Ucraina e dintorni.

Andando a rileggere oggi le cronache del viaggio di Giovanni Paolo II in Ucraina, tra il 23 e il 27 gennaio 2001, colpisce vedere le tensioni che lo accompagnarono. Si intravedevano già linee di frattura profonde.

Fu un viaggio tanto contrastato quanto importante, l’omaggio del Papa polacco a un terra dove i cristiani avevano sofferto grandemente. Certamente si vedeva la trama complessa di quel Paese e come uno dei suoi tratti fosse proprio la frammentazione del mondo religioso, con una storia di conflittualità che arriva fino ai nostri giorni.

Andrea Galli

Avvenire, 5 aprile 2022