UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

«Progetti di vita? Impossibili»

La vita precaria del dottorando: «Ci insegnano la competizione, ma non sanno darci vera sicurezza»
19 Gennaio 2024

Vivono in monolocali con l’angoscia di dover affrontare spese improvvise (la maggior parte non potrebbe pagare un dentista o un meccanico). Competono con decine di colleghi per un solo posto da assegnista precario. Fanno ricerca in fretta, spinti dalle scadenze asfissianti delle Università. Sono i dottorandi italiani, quasi 30mila persone, e la loro salute mentale è a rischio. A denunciarlo, è l’undicesima indagine nazionale dell’Associazione dottorandi italiani (Adi), presentata ieri alla Camera dei deputati. In particolare, il report ha indagato per la prima volta le responsabilità del sistema universitario sullo sviluppo di disturbi della psiche da parte dei giovani ricercatori. E il risultato è allarmante: oltre un dottorando su quattro presenta sintomi di ansia grave o molto grave, il 35% circa è vittima di depressione e il 37% si dichiara pesantemente stressato.

«È un lavoro molto individuale quello del ricercatore – spiega Rosa Fioravante, segretaria nazionale Adi – spesso per professionalizzarti devi trasferirti ogni sei mesi: i dottorandi si sentono soli in questo processo». Ma su questo – ammettono – non si può fare molto. Il bersaglio dei sindacati, al momento, sono piuttosto i meccanismi di assunzione nel mondo accademico, disciplinati dalla riforma Gelmini del 2010 (legge 240/2010). Che prevede, in breve, assunzioni di ricercatori a tempo determinato, contratti da assegnista rinnovabili di anno in anno e un tetto massimo al lavoro di dodici anni. Terminati i quali, senza riuscire a ottenere una cattedra da professori associati, si viene espulsi dal sistema.

«Precarizzando il percorso del ricercatore – denuncia Fioravante – si è aggiunta una condizione di costante ansia, stress e pressione su una carriera già molto competitiva». Non solo: in assenza del riconoscimento dello status di lavoratore, per dottorandi e assegnisti la pianificazione di una vita autonoma può diventare un’utopia anche a 35 anni. «Le conseguenze più gravi sono per chi progetta una famiglia», conclude Fioravante. Un giovane ricercatore su quattro si dice, perciò, molto insicuro riguardo al proprio futuro. E non potrebbe essere altrimenti. La stragrande maggioranza vive in affitto, lontano dalla città di origine, e spende quasi tutti i soldi della borsa (chi ne è beneficiario) per l’affitto. Solo il 35% dei dottorandi riesce a risparmiare più di cento euro al mese. Agli altri, specialmente nelle grandi città, non rimane niente in tasca (poco più del 25%) o non resta che chiedere aiuto a parenti e amici (quasi il 15%).

Nulla – o quasi – cambia per gli assegnisti che guadagnano mediamente 200 euro mensili in più. A incrinare la salute mentale dei ricercatori, però, è anche lo stesso ambiente accademico. In gergo, si parla di public or perish (“pubblica o soccombi” in italiano) per indicare la spinta continua alla produttività delle Università. Più della metà dei dottorandi, secondo l’indagine Adi, supera il limite di 40 ore settimanali fissato per la maggior parte delle categorie lavorative (non indicato esplicitamente per i ricercatori), con gravi complicazioni per chi non rispetta le scadenze. Lo sa bene Gloria, 35 anni, dottoranda in ambito sociologico a Urbino in attesa di una proroga di nove mesi per concludere la propria ricerca. Il suo percorso, avviato dopo anni di lavoro e un licenziamento volontario, è stato accidentato da incertezze economiche, pressioni dei relatori e precarietà. «Non posso contare su una rete familiare – racconta – e purtroppo così il talento serve a poco».

Ad angosciarla è l’eccessiva competitività: «Ti devi guadagnare quell’unico posto fra un milione facendo immani sacrifici e viaggiando come una pallina di conferenza in conferenza. A volte sono arrivata stremata al weekend e mi hanno chiamata il venerdì pomeriggio per avere sei pagine pronte al lunedì mattina. Se ti rifiuti, subisci ripercussioni a livello emotivo o telefonate inopportune». Schiacciata da questo peso, dopo due anni ha pensato al ritiro dall’Università, riuscendo a scongiurarlo solo grazie al successo accademico della sua ricerca e all’aiuto di un percorso di terapia psicologica. Oggi pensa solo a finire il dottorato in vista di un lavoro futuro. Ma – assicura – non per tutti c’è un lieto fine: «Conosco colleghi che ricorrono a farmaci per gestire il dottorato: molti, per starci dentro, prendono ansiolitici».

Andrea Ceredani

Avvenire, 17 gennaio 2024