Fin dal suo esordio con il romanzo La gallina volante (2000), la scuola è stata presente (e spesso al centro) dei romanzi di Paola Mastrocola, che all’epoca insegnava Lettere in un liceo torinese. Anche il romanzo con cui nel 2004 vinse il premio Campiello, Una barca nel bosco, parlava di scuola. Poi però, in quello stesso anno, la scrittrice decise di prendere il tema di petto e, sollecitata dal suo editore Luigi Brioschi (presidente della Guanda), pubblicò un pamphlet dal titolo La scuola raccontata al mio cane. Il libro riscosse subito un grande successo: prova del fatto che l’analisi, critica e preoccupata (ma mai rassegnata), che l’autrice offriva della situazione della scuola italiana aveva colto nel segno. Non mancarono però le polemiche: mentre molti insegnanti vi si riconoscevano e condividevano quanto Mastrocola aveva scritto, altri la tacciarono di conservatorismo e di nostalgismo, come se l’argomento principale (ma non era affatto così) fosse il rimpianto per la scuola del passato. Ora il saggio esce, sempre da Guanda, in una nuova edizione con una introduzione scritta per l’occasione da Paola Mastrocola (pagine 208, euro 14,00).
Professoressa Mastrocola, raccontare la scuola al proprio cane significa spiegarla a chi non la conosce, compresi quanti sono convinti di conoscerla (dai genitori di ragazzi che la frequentano agli opinionisti che pontificano sull’argomento). Che cosa non si sa oggi della scuola che invece sarebbe importante che si sapesse?
Era il 2004, quando scrissi quel libro, e c’era appena stata la svolta decisiva della riforma Berlinguer. È allora che si cominciò a chiedere all’insegnante di diventare altro: educatore, psicologo, animatore e possibilmente amico. Importava non più tanto che insegnasse la sua materia, quanto che si occupasse di educazione stradale, alimentare, disagio, cittadinanza, che tenesse i famosi “rapporti col territorio”, che diventasse indulgente e rendesse tutto facile e divertente. Il tempo dell’istruzione vera e propria si restringeva e si sviliva, ed era inevitabile che i ragazzi ne uscissero meno preparati. Oggi la scuola ha proseguito su quella strada, e il rischio ignoranza è diventato realtà. Mi sembra giusto che tutti sappiano dove questo è cominciato, come e perché.
Qual è il rischio di chiedere agli insegnanti di essere tuttologi?
Un insegnante non è onnipotente, non è capace di far tutto. Se ha studiato matematica, non chiediamogli di fare lo psicologo. Prendiamo al meglio quel che sa fare. Sarebbe come chiedere a un medico, durante la visita, di fare anche l’attore intrattenendoci con qualche scenetta divertente, o di fare il barman preparandoci una bibita gustosa: certo, sarebbe molto piacevole. Ma mancherebbe al suo vero compito, che è quello di curarci e possibilmente guarirci. E poi secondo me chiedere all’insegnante di fare tutto vuol dire che siamo una società che ha perso fiducia nel valore della cultura: non pensiamo più che l’istruzione possa formare, ed elevare, una persona. Diciamo di pensarlo, ma non è vero».
Lei parla, nell’introduzione scritta per questa nuova edizione, di un certo «pregiudizio » nei suoi confronti: bollata come reazionaria e passatista, anche da persone che magari non hanno davvero approfondito le sue posizioni. Che cosa si sente di rispondere a questa accusa?
Quel che dicevo nel libro era sostanzialmente questo: non smettiamo di trasmettere il sapere, non banalizziamo le materie, non introduciamo progetti fascinosi ma estranei, evanescenti e fuorvianti, non abbandoniamo il rigore, la volontà di esigere l’impegno, e soprattutto non pensiamo che facilitando la scuola aiuteremo i più deboli: solo portandoli a saper fare le cose difficili, daremo loro gli strumenti per accedere ai più alti livelli di studio e per approdare a lavori ambìti. Dicevo che al centro della scuola devono esserci i libri, non i riassuntini o le schede; dev’esserci lo studio, la scrittura dei temi, la traduzione dal latino, non i test a crocetta o le tesine finali preconfezionate; devono esserci i maestri, non dei semplici istruttori, tecnici, o facilitatori multifunzione. Tutto questo non mi sembra reazionario o passatista. Mi sembra scuola, nella più alta accezione del termine. Mi sembra fiducia nel sapere, nella cultura, nel grandissimo patrimonio culturale che ci viene dal passato e che dobbiamo passare alle nuove generazioni, perché non si sentano perse nel vuoto».
Perché è pericolosa l’idea di una «Scuola del Sorriso Permanente», come scrive a un certo punto, cioè di un luogo che non crei alcun tipo di difficoltà agli studenti?
«Sorridere sempre non è solo impossibile, ma sarebbe deleterio. C’è bisogno di provare anche noia, fastidio, sofferenza, perché, come dice Leopardi, solo se c’è stata tempesta proveremo la gioia di veder tornare il sole. È bene quindi (oggi più che mai!) che la scuola educhi a gestire il fallimento e la frustrazione, e a sopportare limiti e regole. È fondamentale, non solo per l’equilibrio di una persona, ma per la sua felicità».
Nell’introduzione lei cita Pasolini a proposito della sua idea di progresso: non solo innovazione, ma anche conservazione di ciò che è imprescindibile. Che cosa sarebbe importante conservare oggi (o, se è già troppo tardi, magari recuperare) a scuola?
Trovo pazzesca questa corsa cieca e sfrenata all’innovazione. D’accordo, la tecnologia è fondamentale, sarebbe folle non usarla. Ma perché, accanto, non conservare intatti i pilastri che da secoli reggono la nostra civiltà? Perché stravolgere i metodi d’insegnamento? Ad esempio la lezione. Ad esempio il tema scritto. Ad esempio il patto tra scuola e famiglia, che è completamente saltato e andrebbe ricostituito: l’insegnante si occupa dell’istruzione dei figli e i genitori ne supportano il lavoro, perché il fine è comune e condiviso. Oggi i genitori non sono gli alleati dell’insegnante, ma i suoi più acerrimi nemici: fanno i sindacalisti dei figli, sempre lì a proteggerli dal mostro cattivo che vuole il loro male. Così non si va da nessuna parte».
In diverse pagine del libro c’è una difesa della letteratura e del suo ruolo a scuola, anche se le varie riforme e riformine succedutesi negli ultimi anni sembrano volerle togliere spazio. Perché la letteratura è un bene insostituibile per la formazione dei ragazzi?
Per letteratura intendo i romanzi, le poesie, le tragedie: le opere! Non certo la storia letteraria (che è solo la griglia dove incasellare opere e autori nel tempo e nello spazio, e deve farsi, ma brevemente). I romanzi e le poesie parlano di noi, della nostra vita, del nostro modo di stare al mondo e intendere l’amore, la morte, l’amicizia, la nobiltà, il tradimento. Leggere un romanzo, una tragedia o una poesia vuol dire entrare nella complessità dei nostri sentimenti, buoni e cattivi che siano, e nel mistero delle nostre scelte, sventurate o felici. Quale altra materia ci permette questo affondo nella sostanza dell’essere umano, nella conoscenza di sé? Attraverso le opere letterarie si arriva a parlare di tutto, anche dei temi più attuali e controversi: la guerra, la malattia, il bullismo, la violenza, la povertà, le disuguaglianze, le ingiustizie. Ma ci si arriva indirettamente, senza l’imposizione di lezioncine morali. Si scopre che il passato era già il nostro presente, che era lì ad aspettarci, perché eravamo noi il suo futuro. Senza contare che abituare i ragazzi a leggere vuol dire distoglierli, almeno un po’, dall’uso continuo e compulsivo dei social. Vuol dire offrir loro un’alternativa. E se siamo bravi, se sappiamo indicare le opere giuste e li accompagniamo nella lettura, non è escluso che alla fine scelgano un libro, invece di una chat.
Roberto Carnero
Avvenire, 31 dicembre 2023
(foto Boato)