Nella mia lunga esperienza di insegnamento non ho mai dato credito a certi colleghi che lamentavano un progressivo scadimento degli studenti, per capacità o disponibilità, riportando indignati qualche eclatante svarione o presunta inadeguatezza. Certo gli ostacoli non sono mancati, a cominciare dalla resistenza che spesso i miei alunni adolescenti opponevano all’impegno scolastico, dovuta a quel misto di indolenza e irrequietezza che è proprio della loro età. Ha sempre richiesto un notevole impegno mostrargli come la letteratura e la storia possano fornire preziosi strumenti per conoscere se stessi e il mondo. Convinto che chi insegna abbia il compito non di riempire un vaso, ma di accendere un fuoco, ho profuso la passione di cui ero capace per generare un’energia anche affettiva, uno spazio emozionale che reputo indispensabile per qualunque trasmissione di conoscenza, per mettere davvero in comunicazione chi parla e chi ascolta. E i miei sforzi sono sempre stati ripagati. Nella misura in cui ho dato, ho poi ricevuto, sul piano sia umano che professionale.
Tuttavia da qualche tempo devo mio malgrado riscontrare un vistoso calo dell’intesa che riesco a raggiungere coi miei studenti, che non dipende solo dalla crescente differenza di età, dal fatto che alla mia prima supplenza avevo quella di un fratello maggiore mentre ora potrei essere il loro nonno. Incontro una difficoltà inedita nell’allacciare un dialogo, un rapporto di simpatia nel senso etimologico del termine, cioè sentire insieme, condividere. Ho la sensazione che mi ascoltino, ma da una maggiore distanza e con una sorta di pregiudiziale distacco, come se fossero influenzati da qualcosa che a priori smentisce o quanto meno non avvalora ciò che dico. Quando parlo dello sgomento leopardiano di fronte all’Infinito oltre la siepe, del capitano Achab e del pirata Long John Silver, della conquistata ironia di Svevo, a volte non mi basta raddoppiare gli sforzi per riuscire a coinvolgerli, e il problema riguarda non soltanto la scelta di un certo argomento o autore, ma un generale sguardo sulla realtà presente e passata. C’è una crescente discordanza fra le nostre scale di valori, fra ciò che loro e io giudichiamo significativo, bello, necessario. Come se avessimo una diversa focalizzazione e le cose che indico non le vedessero più.
So che tutto questo può dipendere da motivi già noti e considerati, quali la disaffezione dei ragazzi per il testo scritto, il contrasto fra la lentezza e la profondità della letteratura rispetto alla simultaneità dei loro abituali contatti sui social, l’illusione di poter trovare all’istante in Rete la risposta a ogni possibile quesito, come facile alternativa alla più onerosa costruzione di una personale cultura. Ma sento che c’è dell’altro, che si tratta di uno slittamento delle basi su cui poggiano non solo la conoscenza, ma l’esistenza stessa.
Tendo l’orecchio ai discorsi che i miei studenti intrecciano a ricreazione o sui corridoi, che a volte si affacciano anche nei loro commenti in classe, e mi accorgo che sono sempre più incentrati su denaro e possesso: quanto costa un determinato prodotto, quando potrò comprarlo, quanto potrei risparmiare acquistandolo su Internet. Sembrano assuefatti a un consumismo sovrano, che non contempla remore o dubbi. Al loro occhio attento non sfugge un eventuale oggetto costoso con cui mi vedono entrare in aula, e si complimentano, ne fanno un motivo di rispetto. Se scoprono che ho pubblicato dei libri non sono curiosi di sapere se si tratta di romanzi, poesia o ricette di cucina, ma quanto hanno venduto, quanto ci ho guadagnato. Domando cosa pensano di fare dopo il diploma e suggerisco se possibile di proseguire gli studi, di trovare comunque qualcosa che li appassioni, ma emerge subito che la loro massima aspirazione è un’attività che permetta di fare soldi in fretta. Sognano una partecipazione al Talent show capace di lanciare una giovane promessa nell’empireo del successo, di inventare il nuovo gioco elettronico che conquisti il mercato. Sono affascinati dalla figura dell’influencer che senza alcun particolare merito conquista folle di followers. L’uomo più fortunato del mondo per loro è il calciatore che guadagna 100 milioni l’anno, ben sapendo che a un comune mortale come il loro professore per raggiungere quella cifra occorrerebbero cento vite lavorative. Sono molto compiaciuti, tanto che vengono a riferirmelo, di scoprire che qualche invidiato e ricco personaggio pubblico non è nemmeno diplomato, convinti che non per questo possa mancargli qualcosa di importante.
Parlarne di continuo sarebbe controproducente, ma quando se ne offre l’occasione cerco di indurli a ragionare, a riflettere sul fatto che il denaro è sì indispensabile, soprattutto per chi stenta a soddisfare i bisogni primari, ma che poi ciò che più conta è sentirsi apprezzati, accettati e amati da persone care.
Ribadisco l’antitesi fra avere e essere, e come la propria identità debbano costruirsela, non si possa comprare. Dopo un po’ di resistenza ne convengono, ammettono che ho qualche ragione, ma sento che le mie parole non attecchiscono, non li smuovono. Per una larga parte di loro la forza di certi modelli e convincimenti è diventata soverchiante, ha messo radici profonde, in un modo che non è spiegabile solo con l’ansia generata dalle crisi economiche e da un mercato del lavoro divenuto più spietato di un tempo, ma chiama in causa anche le famiglie che hanno alle spalle e ciò che fin dall’infanzia vi hanno assorbito.
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Alessandro Tamburini
Avvenire, 17 maggio 2019