Da insegnante quotidianamente “in trincea”, a volte mi viene fatto di pensare che una delle iatture della scuola italiana siano i pedagogisti. Affermazione perentoria e che rischia di essere poco rispettosa, me ne rendo conto. Cercherò perciò di argomentarla. La provocazione nasce dal fatto di constatare come certe teorie pedagogiche, spesso calate dall’alto sulla concreta prassi didattica ed educativa, risultino talora più dannose che utili. Beninteso, lungi da me il negare l’importante contributo offerto a maestri e professori dal pensiero pedagogico moderno e contemporaneo. Figure come don Bosco, Maria Montessori, Mario Lodi o don Milani hanno insegnato tanto, e possono ancora trasmettere tanto, a chi lavora nella scuola. Ecco, mi accorgo che, nell’esemplificare, ho citato personaggi che erano, innanzitutto, insegnanti.
Gente che si è sporcata le mani con la ferialità del lavoro di docente, e che ha tratto dall’attività svolta in prima persona a contatto con i ragazzi gli spunti per articolare proposte di cambiamento che avrebbero segnato le epoche in cui questi protagonisti sono vissuti, ma anche quelle successive. Il problema sorge invece quando le teorie appaiono del tutto svincolate dalla pratica. Ho tra le mani un libriccino intitolato La città educante. Manifesto della educazione diffusa, scritto da Paolo Mottana e Giuseppe Campagnoli (Asterios, pagine 92, euro 13,00). Si apprende dal risvolto di copertina che Mottana è ordinario di Filosofia dell’educazione all’Università di Milano Bicocca, nonché direttore del Master in Culture simboliche per le professioni dell’arte, dell’educazione e della cura, mentre Campagnoli, già dirigente scolastico, è un esperto dell’Education, audiovisual and culture executive Agency della Commissione Europea e dell’Unesco nel campo della cultura dell’education e della creatività. Il sottotitolo del volumetto recita: «Come oltrepassare la scuola».
Proprio questo – il superamento dell’istituzione scolastica per come la conosciamo – è infatti l’obiettivo finale della visione dei due autori. I quali scrivono: «La scuola deve ridursi a una base, un portale, dove organizzare attività che devono poi realizzarsi nel mondo reale, tramite un progressivo adeguamento reciproco delle esigenze delle attività pubbliche e private interessate, degli insegnanti e dei ragazzi e bambini stessi». In altre parole, si auspica l’abolizione di quella differenza tra scuola e società, che però – aggiungiamo noi – fa della prima un luogo di libera elaborazione di pensiero e di formazione della persona e del cittadino. Insegnanti, ragazzi e bambini dovrebbero «adeguarsi» alle «esigenze delle attività pubbliche e private». La sensazione è quella di una singolare utopia, sensazione rafforzata da passi come questo: «Proviamo a mettere tra parentesi il termine scuola per il tempo di questa lettura. Immaginiamo che non esistano più edifici chiusi e muri dove i bambini e le bambine, i ragazzi e le ragazze restino confinati per il tempo della loro educazione ma che questi, come certi giochi di carta, improvvisamente pieghino le loro pareti verso l’esterno, per lasciare che essi escano fuori, si mescolino al mondo, sciamino per le strade, anche solo per percorrerle, senza nulla da fare, guardandosi in giro, vedendo e toccando, riempiendo l’aria dei loro corpi e dei loro respiri, del loro camminare e correre, del loro muoversi colorato».
Il cambio di prospettiva qui è radicale – si prospetta una sorta di multicolore paese dei balocchi che vada a sostituire il (presunto) grigiore delle scuole, nel saggio chiamate «reclusori» –, ma a un livello meno estremo sono idee di questo tipo ad aver sostenuto, nella mente del legislatore, iniziative recenti, che sono già in atto, come quella dell’alternanza scuola-lavoro. Se è giusta l’idea di favorire un’osmosi tra momento della formazione e mondo del lavoro, di fatto tale progetto si traduce in due o tre settimane in meno di lezione, determinando un impoverimento dell’approfondimento delle diverse discipline. Ma ancor più pericolosa è l’idea che il sapere in sé valga poco qualora non abbia un’immediata ricaduta pratica. Il rischio, così, è quello di subordinare lo studio a una visione utilitaristica della cultura, negando valore all’astrazione, alla riflessione, alla maturazione umana e civile che cerchiamo di portare avanti, giorno dopo giorno, in una scuola il cui tempo è prezioso proprio perché – come nella vita poi non accadrà mai più – si fanno anche cose belle e “inutili”.
Roberto Carnero
Avvenire, 1 aprile 2017