Chiudono le scuole. Pinocchio fa festa, ma non sa cosa l’aspetta: orecchie d’asino e naso lungo. Le aule saranno deserte in tutta Italia a partire da oggi fino al 15 marzo e chissà, forse oltre ancora, nel caso in cui l’epidemia del coronavirus non accennasse a diminuire.
Sembra l’amara, sconsolata rivincita degli hikikomori, protagonisti di un fenomeno nato in Giappone ma conosciuto anche in Europa: gli adolescenti che scelgono di isolarsi per mesi di fronte allo schermo del computer senza uscire dalla stanza. Sembra quasi di sentirli intonare uno strano coro di sorprendente rivendicazione: ce ne avevate dette di ogni colore, accusandoci di essere dei falliti e adesso il virus vi costringe a ripercorrere i nostri passi.
In realtà ciò che per questi ragazzi fragili rappresenta una via di fuga dall’impegno quotidiano, dunque una sostanziale sconfitta, potrebbe diventare una nuova occasione di pratica e consapevolezza sociale. A patto di assumerci, tutti, non solo i più giovani, la responsabilità legata alla comprensione attiva di quanto sta accadendo. È in fondo la stessa democrazia occidentale, che procede a ingranaggi scoperti, a chiedercelo.
Se è vero che il presidente cinese Xi Jinping già a inizio gennaio era a conoscenza della virulenza epidemica scoppiata a Wuhan poi rapidamente diffusasi nel pianeta e l’ha tenuta nascosta per la vecchia ragion di Stato dei regimi di un tempo, dobbiamo ammettere, o semplicemente sperare, che questa omissione tattica nel tanto criticato Vecchio Continente sarebbe inammissibile. Oggi davvero possiamo, anzi dobbiamo dire: ciò che succede a te, riguarda anche me. Siamo chiamati a prenderci carico l’uno dell’altro: non è forse questa la «social catena» di cui parlava Leopardi nella Ginestra? Quella che, di fronte all’«empia natura» rendeva gli uomini «confederati», uniti a fronteggiare gli «alterni perigli» e le angosce della «guerra comune»?
Allora è consolante scoprire che, ad esempio a Codogno, il luogo simbolo del primo focolaio italiano, dove le autorità hanno delimitato una zona rossa molto estesa, quasi nessuno dei cinquantamila abitanti ha forzato il blocco. Si tratta di un segno di maturità che dovremmo apprezzare. Come invece andrebbero respinti tutti i tentativi di speculazione non solo politica, tesi a dividerci in un momento di emergenza che ha pochi precedenti nel nostro Paese.
In tale prospettiva la scuola, anche se chiude e si trova quindi costretta a organizzare (dove può e per quanto si può) una didattica a distanza utilizzando gli strumenti informatici, deve tornare a recitare il ruolo che più di ogni altro la contraddistingue: far passare ai ragazzi e, attraverso di loro, alle famiglie, il concetto operativo del bene comune da costruire insieme.
Tutti sappiamo, inutile nasconderlo, che la presenza fisica dell’insegnante resta imprescindibile nella trasmissione del sapere: uno sguardo e un sorriso non possono essere paragonati a un semplice collegamento video; una battuta e la spiegazione orale valgono più di qualsiasi software. Non c’è niente che possa sostituire l’esperienza della relazione personale. Tuttavia, anche vivere l’assenza del rapporto diretto, fare tesoro di tale mancanza, accresce il sentimento della realtà e ci potrebbe aiutare a superare l’idea che l’istruzione sia un grande artificio, una specie di gioco a premi a cui partecipare per essere promossi o bocciati. Non è così.
Qualche giorno fa Sarah, una ragazza nigeriana di quindici anni che vive a Bologna, quando le è stato detto che i corsi di italiano sarebbero stati temporaneamente sospesi, si è detta dispiaciuta perché, parole sue, stare tanto tempo a casa non le permetterà di imparare. Ecco, forse dovremmo ripartire dal disappunto manifestato da questa studentessa per motivare alla partecipazione non solo certi suoi coetanei italiani, pronti a esultare pensando alla vacanza forzata, ma tutti noi. Non basta eseguire gli ordini. Dobbiamo essere convinti della loro necessità.
Eraldo Affinati
Avvenire, 5 marzo 2020