C’è Ousmaina, il volto incorniciato dal velo e le dita affusolate che stringono La luna e i falò di Cesare Pavese. Lo legge – col suo accento italo-arabo – , nella casa di riposo di Nizza Monferrato e intanto si domanda delle vigne, dell’America, della Liberazione. Cose che non conosce e che a lei, marocchina di origine, a sua volta vengono raccontate dagli ottantenni che ha davanti, durante le pause. Nelle Langhe sono cinque le “Lettrici itineranti”, tre sono arabe: il progetto voluto dal Comune, e realizzato non solo per gli anziani ma anche per i bambini dell’asilo, ha l’obiettivo di mettere insieme mondi lontani, superando paure e pregiudizi. Così, nel cuore multietnico della provincia piemontese, si prova (e si riesce) a fare intercultura.
Vallo a spiegare a Palazzo – dove la retorica politica di volta in volta attenta o contraria alla diversità si riempie la bocca di “teorie” e di “indirizzi” – che la scuola italiana ogni giorno raccoglie la sfida di 850mila studenti stranieri in carne e ossa nelle sue classi. Da trent’anni, su questa frontiera, si muove appassionato Vinicio Ongini, prima maestro, poi esperto presso la Direzione generale per lo studente del Miur, anima e braccio dell’Osservatorio nazionale per l’integrazione e l’educazione interculturale, in particolare del Gruppo di lavoro sulle scuole nelle periferie urbane interculturali. Alle stampe ha appena consegnato l’ultimo dei suoi viaggi nel Paese reale – quello dei progetti che funzionano e degli insegnanti ancora capaci di sognare – intitolato La grammatica dell’integrazione (Laterza, pagine 161, euro 16).
Cosa significa intercultura e a che punto siamo con l’integrazione nella scuola italiana?
Il ministero della Pubblica istruzione italiano ha utilizzato per la prima volta questo termine in un documento del 1990. Ma la manutenzione dei «buoni» principi – ovvero l’idea dello scambio tra diversità e della possibilità di guadagnare dalle diversità traducendole in un vantaggio per tutti – è stata intermittente e per così dire distratta. Non sempre cioè alle indicazioni e raccomandazioni hanno fatto seguito azioni e attività coerenti, sostenute da risorse, programmi di formazione e valutazioni sull’efficacia, l’utilità, il senso delle pratiche. Negli anni tuttavia sono maturate esperienze coraggiose, per certi versi visionarie.
E che tuttavia restano in ombra. Un po’ come il rendimento degli studenti stranieri a scuola, su cui fioccano pregiudizi da sfatare. Parliamo per esempio di quello che è emerso dai test Invalsi del 2018...
L’attenzione dei media si è concentrata quasi unicamente sul fallimento degli studenti italiani: si è parlato di analfabetismo, dell’incapacità da parte dei nostri ragazzi di comprendere un testo complesso. Le prove di quest’ultima indagine però contenevano una novità, due prove di inglese per la quinta elementare e la terza media. E qui sono emersi risultati inaspettati sugli studenti stranieri: se anche loro hanno problemi in matematica e in italiano, in inglese sono bravi quanto i loro compagni di classe italiani e in alcune regioni anche di più. Ancora: la maggioranza degli studenti stranieri immatricolati all’università proviene dalle scuole italiane (e non dall’estero) e una percentuale significativa ha frequentato istituti tecnici e professionali. Anche se hanno accumulato ritardi scolastici, anche se sono arrivati senza conoscere la lingua italiana, anche se «schiacciati » su scelte tecnico-professionali, molti di loro non rinunciano a proseguire gli studi. Degli stranieri però non si parla, oppure troppo spesso il racconto e la pratica della loro integrazione si concentrano più sulle carenze, sulle difficoltà, sui vuoti da colmare.
Da questo racconto parziale nascono anche le paure...
Che sono sacrosante, dico sempre io, ma che vanno una volta per tutte affrontate e snocciolate. Nel libro lo faccio in un capitolo intitolato «Fifa bianca: la paura dei genitori italiani per le scuole con “troppi” stranieri». Partendo dalle conclusioni di un recente studio del Politecnico di Milano, in cui viene dimostrato come il 50% dei bambini in città frequenti scuole fuori dal proprio bacino di utenza, un dato che segnala una massiccia fuga degli italiani dalle scuole collocate in territori a maggior concentrazione di bambini di famiglie svantaggiate e immigrate. La conclusione, pesante, dovrebbe diventare una questione nazionale: meriterebbe, cioè, una discussione pubblica a diversi livelli, politici, sociali, educativi. Quella della scuola è una «prima linea » dell’integrazione, proprio come Lampedusa per gli sbarchi. È un grande laboratorio nazionale. Dove si fanno prove di comunità e di convivenza. Coinvolge milioni di persone, di diversi ceti sociali e differenti generazioni. Ma è anche un campo di tensioni, conflitti, malintesi. Come rispondere alle paure e alle preoccupazioni delle famiglie? Quali sono le condizioni per una gestione sufficientemente buona di contesti scolastici fortemente eterogenei? E come si può interagire con il mondo di fuori: il quartiere, le associazioni, il volontariato?
Il suo libro è ricco di risposte concrete, in questo senso. Quella delle “Lettrici itineranti” nelle Langhe è soltanto una.
È il mio controracconto, fatto di quelli che a me piace chiamare “costruttori di ponti”. Un’esperienza decisiva, per esempio, è quella della Scuola di lingua italiana per stranieri dell’Università di Palermo: ha organizzato corsi con classi miste, minori stranieri non accompagnati insieme a studenti universitari del programma Erasmus e dottorandi. Una classe di stranieri, certo, ma diversissimi tra di loro per storie, esperienze, età, condizioni e classi sociali. Un gruppo di allievi «forti», studenti arrivati in aereo con borse di studio, insieme ad un gruppo di allievi «deboli», fuggiti dal proprio Paese, arrivati, a volte, in gommone o sotto un camion. Ruoli che si sono ribaltati, lungo il percorso, coi primi più deboli nelle competenze orali e i secondi invece in quelle scritte. Il risultato è che gli uni hanno insegnato agli altri, e l’eterogeneità s’è ricomposta in un equilibrio vantaggioso per entrambi. Quello che all’inizio definivo come “intercultura”. Quel prefisso, “inter”, è prezioso, è un piccolo ponte. Ma c’è anche il percorso sui copricapi avviato da alcune scuole superiori di Eboli, in provincia di Salerno: un viaggio incredibile condotto insieme ai ragazzi dal velo delle donne islamiche ai “maccaturi”, il fazzolettone della tradizione contadina, al turbante fino al cappello di Harry Potter. E ancora, il coro multietnico nato nel quartiere Torpignattara, alla periferia di Roma, con la musica come campo di integrazione. l’esperienza di alcune scuole di Torino con i rom, sfociata in una lettera di protesta a Google per segnalare l’assenza nel Traduttore della lingua romanì.
Sono i «non-eventi» dell’integrazione (la definizione è della giurista e filosofa canadese Lori Beaman): soluzioni adottate lontano dai riflettori, basate sull’interazione con l’altro, sull’esplorazione del registro emotivo, sulla costruzione di legami sociali, sulle prove di comunità. Da cui dobbiamo imparare.
Viviana Daloiso
Avvenire, 8 settembre 2019