E se quest’ultimo drammatico anno che ci siamo appena lasciati alle spalle nascondesse, dietro alla tragedia delle migliaia di morti, fra i tanti dissesti finanziari, alla disoccupazione in crescita, alle ansie di numerose famiglie costrette a difendersi in cento modi dalla crisi economica, un tesoro misterioso, quasi indicibile e tuttavia innegabile, di generosità e altruismo, solidarietà e resistenza? È quanto abbiamo appreso la sera del 31 dicembre dall’omelia di Papa Francesco che il cardinale Giovanni Battista Re ha letto nella basilica di San Pietro in occasione del Te Deum, la tradizionale preghiera di ringraziamento, nella solennità della Santissima Madre di Dio, prevista dalla tradizione liturgica: parole da non dimenticare, non foss’altro perché si staccano dal coro di considerazioni troppo spesso unicamente negative e vittimistiche che ci siamo purtroppo abituati ad ascoltare.
Il Papa, nel momento in cui registra la gravità del tempo segnato dalla pandemia, richiamandosi alla compassione provata dal buon samaritano, lascia emergere i comportamenti virtuosi di cui tutti noi, nel pieno del flagello, continuiamo ad essere testimoni. E non si limita a impostare un discorso teorico. Fa esplicito riferimento a quelle categorie sociali e professionali che si stanno prodigando come non mai nel combattere la potenza malefica di un virus nato e cresciuto all’interno della natura, nel costante tentativo di ripristinare il bene comune: operatori sanitari, quindi medici, infermieri, volontari, ma anche sacerdoti, pubblici amministratori, dirigenti scolastici, insegnanti. Coloro che «si sforzano ogni giorno di mandare avanti nel modo migliore la propria famiglia». Queste persone lo fanno a luci spente, senza pretendere alcun riscontro, spesso nella solitudine e nell’umiltà. Esse sono degne di omaggio perché rappresentano la nostra parte migliore che, nel momento estremo del bisogno, viene fuori.
Domani finalmente torneremo, seppure con le inevitabili gradualità e difformità territoriali, alla tanto sospirata scuola in presenza, nell’auspicio che la progressiva diffusione del vaccino ci consenta di poterlo fare in modo definitivo. È dunque questo il momento di ricordare, sulla scorta di quanto affermato dal Papa, lo straordinario lavoro svolto dai docenti i quali, da un giorno all’altro, hanno dovuto “inventarsi” un’altra scuola a cui, diciamo la verità, tranne casi speciali, non erano affatto preparati. E tuttavia si sono rimboccati le maniche e hanno cercato di farlo, ognuno secondo le proprie capacità e gli strumenti tecnologici disponibili, nel migliore dei modi. In televisione e sulle pagine dei giornali compaiono spesso, lo sappiamo, gli eventi spiacevoli, che richiamano maggiore interesse da parte del pubblico. Anche stavolta ce ne sono stati: soprattutto si è rilevata, nello specifico, una grande disuguaglianza digitale. A farne le spese sono stati i ragazzi che erano già a forte rischio di dispersione, oltre agli alunni disabili, agli immigrati. E tuttavia sarebbe ingiusto sottovalutare il contributo che la grande maggioranza dei docenti ha saputo dare nell’emergenza didattica che peraltro stiamo ancora affrontando. In mancanza della loro azione il tessuto sociale sarebbe adesso ancora più lacerato di quanto non sia.
Tenere insieme una comunità significa mantenere il presidio etico che la scuola rappresenta unendo famiglie e istituzioni, giovani e adulti, nella consegna dei valori culturali alterati e compromessi dalla rivoluzione informatica. «Tutto questo non può avvenire senza la grazia, senza la misericordia di Dio», ha scritto il Papa, sapendo che nei momenti difficili gli uomini tendono a chiudersi in se stessi. Ecco perché le sue parole, con espliciti riferimenti alla nostra realtà romana, ci riguardano tutti.
Eraldo Affinati
Avvenire Roma Sette, 10 gennaio 2021