Informazione e formazione come strumenti di educazione rivolti al bene della persona e della società. Così, giornale e scuola, erano visti da papa Paolo VI, il cui magistero è stato al centro del Consiglio nazionale dell’Agesc, l’Associazione dei genitori della scuola cattolica, riunitosi ieri a Brescia - terra natale del pontefice dichiarato santo lo scorso mese di ottobre. In anticipo di vent’anni sulla fondazione dell’Associazione, ha ricordato in apertura il presidente Giancarlo Frare, nel febbraio del 1955, in visita al Collegio San Carlo da arcivescovo di Milano, il cardinale Giovanni Battista Montini così parlava dell’alleanza educativa tra scuola e famiglia: «La scuola vivrà bene se le famiglie daranno non soltanto i loro figlioli, per liberarsi da questo gravissimo compito dell’educazione, ma se daranno il loro affetto, la loro vicinanza, la loro vigilanza, il loro sostegno, l’appoggio morale».
Un compito, che è anche un impegno verso il riconoscimento di una vera libertà educativa per i genitori, ricordato dal vescovo di Brescia, Pierantonio Tremolada, che è intervenuto sulla figura di Paolo VI educatore. «Educato prima dai genitori e poi dal suo stesso ambiente bresciano al gusto per il lavoro e alla ricerca del bene comune – ha sottolineato il prelato – Paolo VI è stato un maestro per tutta la scuola, creando il nuovo linguaggio del Concilio Vaticano II. Soprattutto – ha richiamato Tremolada – è stato un educatore della coscienza, ricordando ai giovani che il loro centro gravitazionale è proprio la coscienza interiore. Un insegnamento che vale anche per oggi, in un tempo in cui non siamo più abituati a cogliere il senso profondo delle cose, a fare discernimento per leggere i segni dei tempi. È quindi necessario avere la capacità di cogliere le istanze educative per arrivare a stringere alleanze educative, non soltanto tra cattolici, ma con tutti gli uomini e le donne di buona volontà».
Un programma presente fin dalla fondazione anche di Avvenire, come ha sottolineato il direttore Marco Tarquinio, ricordando le tre parole chiave dell’editoriale del primo numero del nostro quotidiano, uscito il 4 dicembre 1968: ricerca, proposta e partecipazione. «Avvenire – ha detto Tarquinio – è stato voluto da Paolo VI come luogo di dialogo, di ricerca come uscita da sé verso la verità, di proposta, per contrastare l’indifferenza e di partecipazione, che è poi l’altro nome della libertà e della responsabilità. Mezzo secolo dopo, a queste tre parole ne ho aggiunta una quarta: fraternità».
Da questo punto di vista, ha ribadito il direttore, «Avvenire vuole essere un centro di dialogo in un tempo in cui nessuno sembra capace di ascoltare». Un tempo «del trivio», ha spiegato Tarquinio, «dove tutti credono di avere la precedenza sugli altri». A chi urla, al cattivismo che va per la maggiore, Avvenire risponde mettendo in evidenza i tanti esempi positivi che pure ci sono ma «hanno bisogno di cittadinanza mediatica». Un giornale che racconta storie di «persone buone, che non si arrendono allo spirito deteriore del tempo», che le inquadra nella generica categoria dei “buonisti”, termine che ha via via assunto una connotazione negativa e caricaturale di un mondo di donne e uomini che, invece, sanno essere anche «liberi, forti e sereni». Un giornale, insomma «controcorrente » su temi come la tutela della vita e le migrazioni, che fa dell’«amore alla causa», il proprio tratto distintivo. Un giornale, infine, che è anche uno «strumento educativo», che non punta a fare sensazione ma «a fare del bene alle persone».
Paolo Ferrario
Avvenire, 24 febbraio 2019