UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

«La mia vita da precario nonostante un titolo»

La testimonianza di un insegnante di religione: un lavoro quotidiano, fatto di studio, incontri, riflessioni, costruzione di relazioni
10 Gennaio 2024

Nel 2004 il presidente della Repubblica era Carlo Azeglio Ciampi, i campionati europei di calcio furono vinti dalla Grecia e l’euro circolava da un paio d’anni. Da allora, e almeno fino ad oggi, non ci sono stati più concorsi per gli insegnanti di religione. Una vita.

Insegno da dieci anni – i primi quattro di supplenze – e mi è capitato di dover rispondere con il solito ritornello a colleghi che dicevano: «Voi di religione siete certamente tutti di ruolo». Per niente. O almeno: non chi vent’anni fa non ha fatto il concorso. Ma io, a quei tempi, stavo per diplomarmi e avevo altri pensieri per la testa. È possibile rimanere sospesi per così tanto tempo? Non per le altre materie, non per chi – pochi, in realtà, anche se rumorosi – ci dà dei «raccomandati». Bella raccomandazione, quella che ti porta ad essere precario a lungo, nonostante un titolo (Scienze religiose, cinque anni) e svariati incarichi. Così, davanti alla notizia dell’intesa tra Cei e Ministero dell’Istruzione e di un possibile concorso alle porte, viene da pensare: finalmente! Ma il passato mi costringe a essere prudente nell’entusiasmo: siamo sicuri che questa sia la volta buona?

Già, perché a un passo dal traguardo ci siamo già arrivati, e un’intesa era già stata firmata nel 2020, ma del bando non se n’è poi saputo più nulla per intoppi politici. Basta poco – lo strappo di un partito di maggioranza, una tensione tra i sindacati, una pandemia o forse un’invasione aliena – e si deve ripartire da capo.

L’intesa siglata riguarda poi il solo concorso ordinario. Trapela ottimismo anche sulla procedura straordinaria, con il bando riguardante il 70% dei posti disponibili che sarebbe alle porte, prima anche dell’ordinario. Sarebbe la volta buona per coprire una parte delle esigenze della scuola e dare dignità ad almeno un po’ di precari storici. Sperando poi che per il concorso successivo non si debbano aspettare altri vent’anni ma diventi un’occasione regolare.

A 38 anni – e due figlie piccole – vorrei chiarezza: questo lavoro che mi appassiona è davvero quello che fa per me e soprattutto per i miei alunni? Il sistema scuola dovrebbe saperlo, visto che mi conosce da un decennio, e tanti colleghi da molto più tempo. Ben venga allora una prova – pur sapendo che è impossibile valutare la professionalità di un docente da un qualsiasi esame – e si esca da questo limbo, unico nella scuola italiana. Poi, certamente, il concorso farà comunque da apripista alle solite polemiche sull’insegnamento della religione. C’è chi lo considera un indottrinamento, chi vorrebbe l’insegnamento di tutte le religioni e non solo di quella cattolica, e chi ritiene che i docenti di religione, in fin dei conti, non facciano nulla. Credo che non ci sia miglior risposta che non quella data dal lavoro quotidiano, fatto di studio, incontri, riflessioni, costruzione di relazioni. Non vedo altro modo per togliersi un’etichetta di dosso.

Certo, si potrebbe anche rimandare alle “Linee guida per l’insegnamento della religione cattolica”, che per esempio prevedono l’insegnamento delle religioni. È vero: una lezione a settimana è poca per affrontare in modo serio buddhismo, cristianesimo, ebraismo, induismo, islam (e perché non anche confucianesimo e taoismo?). Perché al docente di scienze non viene chiesto di spiegare l’intero universo, e al prof di italiano la letteratura di ogni latitudine ed epoca storica?

Rimbocchiamoci le maniche, intanto. Anche per il concorso, che attendiamo con la giusta ansia. Senza perdere di vista, in questo clima di attesa, il bene più prezioso: i nostri alunni.

Lorenzo Galliani

Avvenire, 10 gennaio 2024

(foto Romano Siciliani)