Non dirò mai che la mafia accademica occupa l’università, perché non è vero. Ho un figlio ordinario di Diritto, era solo assistente quando il suo prof morì, dunque ha poi trovato commissioni obiettive o neutrali. Ma la mafia accademica c’è, e questo è un problema. E come nasce? È sempre stato interessante, a vederlo da vicino, il rapporto tra un professore universitario e i suoi assistenti, comunque si chiamassero, ricercatori, incaricati temporanei o a tempo indeterminato. Tutti noi, frequentando l’università, l’abbiamo visto da vicino. Una volta erano assistenti volontari o pagati. Uno dei 'pagati' diventava visibilmente il preferito dal docente, il suo vice, e lo si capiva quando il docente, non potendo andare a qualche incombenza (e fosse pure un funerale), delegava lui a rappresentarlo.
Costui, durante le lezioni del prof, sedeva in prima fila nell’aula, e se il prof doveva scrivere delle formule o delle frasi alla lavagna, lui correva a dargli il gesso e a cancellarle quando dovevano essere sostituite. Entrava col prof, usciva col prof. Saliva e scendeva in ascensore con lui. Era la sua ombra. Del prof assorbiva tutte le idee, letterarie, politiche, religiose, filosofiche. Veniva formato e cresciuto come suo continuatore. Il prof rideva per sfottere uno studioso, suo avversario nella sua stessa materia? Anche lui rideva. Il prof citava con sommo rispetto un altro studioso, che la pensava come lui?
Anche lui imparava a rispettarlo, a priori, prima di conoscerne le idee. Il docente plagiava l’anima del discente, creava un altro se stesso. Quest’operazione puntava a un risultato: assicurarsi l’immortalità. Permettere al prof di vivere anche quando non sarebbe stato più in vita. Era immaginabile che, se il prof sdoppiava la cattedra, e accanto alla propria ne creava un’altra, questa andasse a un candidato venuto da fuori, formato da altri prof su loro misura, che era andato ad altri funerali, aveva assistito ad altre lezioni, aveva cancellato su altre lavagne?
Un’operazione del genere sarebbe stata sentita dal prof come una sua propria uccisione. La impediva con tutti i mezzi, leciti e illeciti. In questi giorni stiamo discutendo dei mezzi illeciti, e ci domandiamo: perché un prof, quando i giornali pubblicano i suoi trucchi dei concorsi, non viene abbandonato dagli studenti? Non viene disprezzato dai colleghi? Non viene rifiutato dai giornali sui quali scrive? Perché (resto nel mio campo, che è quello dei libri) quel prof ha calato dentro i suoi studenti la conoscenza di Dante, Leopardi, Manzoni, i suoi allievi hanno ricevuto da lui non solo nozioni tecniche ma anche morali, hanno ricevuto il mondo. Pochi anni fa c’è stato un esempio clamoroso: un docente, giustamente famoso, di Letteratura Italiana s’era fatto mettere commissario a un concorso a cattedra per assegnarla alla sua moglie o compagna.
Era un docente altamente ideologico, predicava la rivoluzione, il reimpianto della società, insomma il ricominciamento della Storia, secondo criteri di giustizia e di merito. L’operazione di mafia accademica che tentò e realizzò, mi parve un vulnus nella sua biografia, credevo che lo avrebbe screditato o sminuito nella facoltà e nel partito. Ma a ridosso di quella vicenda ci fu una tornata elettorale, e lui fu candidato nel suo piccolo partito rivoluzionario e presentato come futuro ministro dell’Istruzione.
Mi son chiesto: come può succedere che un esponente della mafia accademica sia proposto come ministro dell’Istruzione? Succedeva perché il mondo (letterario, morale, politico, sociale), trasmesso dalle lezioni e dai libri del prof, veniva considerato una cosa a parte, autosufficiente, per niente intaccato da qualche sua azione mafiosa o corrotta o illegale: quello è la realtà, questa un accidente. Ritengo che se la mafia accademica resiste, è perché questa pratica assolutoria resiste. Per far sparire la mafia accademica, bisogna far sparire questa pratica assolutoria. Un Maestro che adotta pratiche mafiose non è un Maestro. In grandissima parte i docenti sono persone per bene. Vanno premiati. In minima parte sono mafiosi. Vanno puniti.
Ferdinando Camon
Avvenire, 30 settembre 2017