UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

La lezione di Don Milani e la necessità di nuovi paradigmi

Il prof. Affinati: Cambiare è necessario, ma non dovremmo abbassare le asticelle del sapere
6 Ottobre 2023

La centralità della questione educativa è ormai incontestabile: non solo i diretti interessati, docenti, ragazzi e famiglie, anche i responsabili politici, troppo spesso renitenti di fronte alle loro responsabilità in questo settore, comprendono che, se non si mette mano alla grande impresa strutturale di ricucitura e rinnovamento dell’istruzione italiana, si rischia di assistere impotenti alla sfilacciatura del Paese, come purtroppo abbiamo visto durante gli anni della pandemia. Gli episodi violenti accaduti fuori e all’interno dell’aula scolastica, negli ambienti socialmente degradati e perfino in quelli che in apparenza non sembrerebbero a rischio, rappresentano soltanto la punta di un gigantesco iceberg nascosto alla maggioranza ma assai ben percepibile da molti insegnanti, specialmente quelli che non si accontentano di eseguire il mansionario, ogni volta che guardano i loro studenti con occhi non unicamente professionali.

Siamo di fronte alla rivoluzione digitale, che comporta una mutazione antropologica non trascurabile: sta cambiando la percezione dei testi e il nostro rapporto con la realtà. Inedite corde cognitive entrano in gioco negli adolescenti cresciuti sui piccoli e grandi schermi, ai quali non può continuare ad essere propinato in modo esclusivo il vecchio modello ermeneutico della scuola di un tempo, basato sul trittico: spiegazione-interrogazione-verifica. A questo sistema di trasmissione del sapere, fondato sulla certezza di una tradizione consolidata e su meccanismi di controllo logicodeduttivi scaturiti dalla concentrazione e dall’esercizio quotidiano, dovremmo affiancare altri strumenti conoscitivi, tesi a rifondare l’esperienza, che possano intercettare la frammentazione imperante fra i giovani.

Si tratta di ripensare i programmi, calibrandoli nel nuovo orizzonte di attesa; riformulare gli spazi didattici, nella prospettiva della circolarità dell’apprendimento; ricostruire l’alleanza fra le principali agenzie educative, privilegiando la coralità indispensabile per non lasciare da solo il docente di fronte alla classe; favorire il protagonismo dei ragazzi predisponendo per loro adeguate imprese da raggiungere; ripristinare le gerarchie di valore all’interno della grande Rete, indicando ai più giovani cosa è importante e cosa non lo è; incentivare adulti credibili in grado di incarnare il limite che le personalità più a rischio non devono superare; investire risorse nella formazione degli insegnanti spingendoli a riflettere sul loro ruolo essenziale nell’edificazione di una resistenza etica al cospetto dell’amaro trionfo del mercato sulla qualità. Dichiararsi schiavi del consenso non ci conduce verso la maturità spirituale. Ma questo, ammettiamolo, ammesso e non concesso che venisse attuato, non basterebbe: perlomeno non sarebbe sufficiente a cambiar rotta. Alla base di tutto resta la qualità della relazione umana che si riesce a realizzare a scuola: quel clima di reciproca fiducia in mancanza del quale niente può funzionare. Don Lorenzo Milani, quando diceva che i professori di pedagogia non avevano bisogno di guardare e riconoscere i ragazzi perché li avevano già tutti in mente, «come noi si sa le tabelline», intendeva riferirsi innanzitutto alla responsabilità dello sguardo altrui: nessun I care è possibile se non ti metti di fronte e al fianco all’adolescente irrequieto e fragile, da maestro e amico, chiamando in causa la motivazione profonda che ti spinge a farlo. In tale prospettiva le azioni del docente possono diventare l’avanguardia di ogni rapporto sociale perché abituano i giovani a non uniformarsi passivamente allo status quo, basato sulla dimensione puramente retributiva (io ti do questo solo se tu mi restituisci quest’altro), ma lo rendono davvero libero nel momento in cui ne esaltano la predisposizione alla gratuità (vivere a fondo perduto, credendo nel valore di ciò che facciamo, a prescindere dal risultato ottenibile).

Il nodo non sciolto di maggiore rilevanza, intorno al quale si addensano molte delle questioni appena sollevate, è quello della valutazione scolastica, raggiunta o mancata: tutti i grandi studiosi del passato, da John Dewey a Maria Montessori, hanno puntato sull’individualizzazione delle azioni didattiche, all’interno delle comunità cooperative predisposte dai professori, configurati come guide e supervisori delle attività svolte, eppure oggi stiamo andando in direzione opposta, virando decisamente sulla standardizzazione, di marca europea, degli apprendimenti. I tassi di dispersione, divenuti insostenibili soprattutto nelle regioni meridionali italiane, specie nei bienni dell’istruzione professionale, sembrano non spaventarci più di tanto, visto che, nonostante i numerosi avvertimenti dei numerosi addetti ai lavori, i timonieri dell’istruzione, senza soluzione di continuità rispetto ai governi che si succedono, non hanno intenzione di rinunciare ai sistemi di verifica basati sulle risposte multiple, figli delle domande-trabocchetto della famosa professoressa contro la quale si schierò il priore di Barbiana, non solo perché lei faceva le parti uguali fra disuguali, mettendo sullo stesso piano Gianni e Pierino, come ci comportiamo noi ancora oggi, magari rivolgendoci a Claudio, italofono, nel medesimo modo in cui parliamo con Abdel, neo-arrivato in Italia dall’Egitto, pretendendo che entrambi raggiungano lo stesso obiettivo, con un tempo esecutivo calcolato senza considerare la diversa stazione di partenza di ognuno, ma in quanto, così operando, si continua a perpetuare l’idea della scuola come luogo specialistico separato dalla vita, sede del giudizio e non del vicendevole scambio, centro istituzionale dove ci si addestra a superare l’ostacolo e non a sperimentare, nell’elaborazione critica della cultura e delle tecniche, nuove avventure conoscitive.

Stiamo parlando, è bene ribadirlo, dell’istruzione elementare fino all’età dell’obbligo: il momento cruciale in cui i bambini crescono e i ragazzi diventano uomini. Tuttavia, l’auspicata modificazione dell’impostazione prevalente non dovrebbe implicare l’abbassamento delle asticelle del sapere, né il cedimento all’indulgenza permissivista che in tanti giustamente temono. Al contrario, dovremmo accrescere la nostra ambizione, cercando di ricavare il massimo da ogni studente, favorendo la collaborazione attiva e creativa fra gli adolescenti, quelli che vanno bene a scuola insieme a coloro che invece stentano, senza selezionare gli allievi, verso l’alto o verso il basso, sapendo che il più bravo, una volta certificato il suo merito, non va isolato dal resto del gruppo.

«Il sapere serve solo per darlo», scriveva il priore, di fatto inascoltato nonostante tutte le giuste celebrazioni del presente centenario. E, con il suo caratteristico tagliente tratto caratteriale, insieme alla forza espressiva del grande scrittore epistolare che dobbiamo giocoforza riconoscergli, a chi gli chiedeva lumi sulla qualità del vero maieuta, aggiungeva: «Dicesi maestro chi non ha nessun interesse culturale quando è solo».”

Eraldo Affinati

Avvenire, 4 ottobre 2023