«Se tu avessi visto, come ho visto io in questo carcere, cosa fanno patire agli ebrei, non rimpiangeresti se non di non averne salvati in numero maggiore». Così scrive nella primavera 1944 dal penitenziario bolognese di San Giovanni in Monte Odoardo Focherini a Bruno Marchesi, fratello dell’adorata moglie Maria. Sette figli, la responsabilità amministrativa dell’Avvenire d’Italia, il combattivo quotidiano cattolico bolognese “padre” di Avvenire (insieme all’Italia di Milano) del quale era anche apprezzata firma, Focherini aveva tutti i buoni motivi per non mettersi nei guai con i nazi-fascisti. E invece, con il suo amico don Dante Sala, aveva iniziato quasi per caso a dare una mano per espatriare con documenti falsi agli ebrei che gli si rivolgevano come a un’estrema speranza. Ne aveva messi al sicuro un centinaio, mentre mandava in edicola insieme al direttore Raimondo Manzini un quotidiano fedele e forte che quasi ogni giorno finiva per traverso al regime, furioso per tanta libertà.
Lo tenevano d’occhio, e lo sapeva. Ma nessuna prudenza poteva trattenerlo dal prodigarsi per chi non aveva altra chance che lui. L’arresto, l’11 marzo 1944 nella sua Carpi, fu l’inizio di una discesa all’inferno nelle celle degli oppositori politici, dopo Bologna il campo di Fossoli, poi Bolzano, infine il lager di Flossenburg, con il sottocampo di Hersbruck dove trovò la morte la vigilia di Natale. Da ognuna di queste tappe trovò chissà come il modo di far recapitare un totale di 166 lettere, in gran parte alla moglie, testimonianze struggenti di un amore profondo e di una fede senza esitazioni nel Dio cui aveva consegnato la sua vita. Martirio in odio alla fede, ha decretato la Chiesa, che nel 2013 l’ha beatificato.
Perché Focherini si espose senza badare a sé? Perché non si fermò quando la situazione stava precipitando? Cosa lo spinse a dare la vita per gli altri? Quale luce accendeva la sua vita anche nell’abisso del campo di sterminio? «Agli affetti più cari, alla stessa legge naturale della conservazione – scrisse Manzini introducendo Mio fratello Odoardo, la biografia scritta nel 1948 da uno dei “salvati” da Focherini, l’ebreo di nascita Giacomo Lampronti, messo in salvo assumendolo al giornale –, egli antepose la croce che Gesù gli indicava come il più luminoso degli ideali. E quella croce portò fino al calvario, sereno nella sofferenza». Il nome di Odoardo Focherini è tornato sulle pagine dei giornali proprio per il crocifisso che lo ispirò nel darsi agli altri senza calcolo perché rigettava quell’indifferenza che – sono parole di Liliana Segre – «porta alla violenza», anzi, «è già violenza». Nel complesso scolastico che Carpi gli ha dedicato la preside ha infatti pensato bene di rimuoverlo dalle pareti delle medie perché «è un simbolo religioso. Qui siamo in una scuola, non in una chiesa», salvo poi tornare – ieri – sui suoi passi.
Occasione per farlo sparire, come spesso accade, la tinteggiatura estiva delle aule: e al ritorno in classe i ragazzi non hanno più trovato il crocifisso. Un colpo di mano che aveva fatto trasalire molti docenti e genitori, spingendoli a scrivere una lettera di fuoco per chiedere conto di un provvedimento unilaterale, tanto più incomprensibile – come ha notato rispettosamente la diocesi – nella scuola intitolata a un uomo che al Crocifisso ha ispirato tutta la sua vita, imitandone la dedizione sconfinata, sino a dare – come Lui – la vita.
Focherini è inseparabile dalla croce: se gliela si toglie resta solo un nome svuotato della sua sostanza più autentica. Come recidergli la radice. Tanto varrebbe levare, dopo il crocifisso scambiato per un arredo liturgico, anche la targa sull’ingresso della scuola. Basterebbe, per averlo chiaro, leggere l’eccezionale epistolario di Odoardo ( Lettere dalla prigionia e dai campi di concentramento, Edb 2013), aprendolo anche a caso: non si troverà una sola pagina che non rimandi all’ideale del dono di sé del tutto disinteressato e dimentico della propria sofferenza e della consapevolezza di ciò che poteva accadergli nelle mani degli aguzzini, o che non dia voce all’idea di quel che avrebbe voluto ancora spendere di sé per gli altri: «A te – scrive alla moglie il 13 luglio dal campo di Fossoli – il gran carico dei bimbi in un’ora difficile e dura, a me quello del pensiero di tutti voi e dell’impossibilità a fare qualcosa, oltre a pregare e a offrire la sofferenza dell’ansia e dell’angoscia per te e voi tutti che in ogni ora mi siete più che vicini. La sola certezza è che nulla di ciò che è dolore e sofferenza va perduto, ma che tutto si tramuta in benedizione se accettata con fede e offerta a Dio».
In Focherini l’amore per la famiglia e per Dio è indivisibile, la fede dà forma a tutta la sua persona: «Se il Signore vorrà ancora mantenerci nella prova o aggravarla – scrive in un’altra lettera a Maria – benediciamo insieme la Sua volontà in nome di quel credo che abbiamo sempre cercato di professare». E ancora, altrove, divorato dall’amore per la moglie, quando forse gli è chiara la fine: «Quanti baci? Tanti quanti te ne darò il Giorno beato che aspetto con cuore sempre più a te unito». Una prosa intrisa di passione: «Centro di tutto – scrive dalla cella di Bolzano – un viso, uno sguardo, un palpito, un fremito, un ricordo, un desiderio che è un nome: il tuo!». Perché il cuore è uno solo.
Tutto si compie. E nell’ultima lettera, datata 4 settembre 1944, consegna il suo testamento: «Offro anche questo al Signore per la mia famiglia e per quella del giornale. Non dimenticatemi nelle preghiere. Il Signore ci sia vicino». Ce n’è abbastanza, crediamo, perché i crocifissi a scuola restino dove sono sempre stati.
Francesco Ognibene
Avvenire, 13 ottobre 2023