Caro direttore, ho letto con attenzione il dibattito sulla bocciatura che 'Avvenire' ha proposto in questi giorni ai lettori e vorrei offrire un contributo in base alla mia esperienza di insegnante e di presidente dell’Associazione Portofranco, che si occupa proprio di lotta alla dispersione scolastica. La prima ed essenziale osservazione è che la questione decisiva non è giudicare gli esiti e valutare come affrontarli, ma mettere al centro il processo di educazione nel cammino dell’istruzione. Per il docente la prima questione non è chiedersi 'se' o 'perché' e 'come' bocciare ma: cosa ho insegnato, come l’ho insegnato? Ho messo in atto tutto quello che potevo per far gustare la mia lezione e quindi far apprendere lo studente? Inoltre, capire i veri motivi dell’insuccesso scolastico non è solo un problema dello studente, ma della relazione educativa e quindi è una domanda anche sull’insegnante e sul consiglio di classe.
Mi onoro di avere avuto come amico e maestro don Giorgio Pontiggia, sacerdote ed educatore milanese morto nel 2009, che – quando era rettore dell’Istituto Sacro Cuore – ogni settimana si faceva dare il quadro dei voti dei ragazzi in difficoltà e si chiedeva con i docenti cosa mettere in atto per 'muovere' la libertà dello studente. Il quale poteva, come può ora, non volere farsi aiutare, ma anche la sua volontà di non farsi aiutare non lasciava tranquillo don Giorgio ma generava in lui un’indomabile volontà di proposta al ragazzo, che si declinava in interventi didattici/ educativi i più originali e pertinenti per cercare di entrare in rapporto con lui. Questo mi sembra fondamentale, perché quando il ragazzo non si lascia aiutare non devo sostituirmi alla sua libertà, ma chiedermi: perché accade così? Cosa ho io, come adulto, da imparare inquesta situazione? Per questo don Giorgio ha bocciato pochissimo, e sempre in accordo con lo studente e la famiglia. Per lui educare istruendo era una avventura comune di studenti e docenti, era una 'universitas', e quindi una bocciatura era una sconfitta da accettare, ma solo dopo aver fatto di tutto per evitarla. Sempre questo mio amico ha avuto l’idea di realizzare un luogo, Portofranco, dove accompagnare gratuitamente i ragazzi ad apprendere la bellezza della conoscenza. In questi miei 19 anni a Portofranco – dove sono passati più di 30mila ragazzi delle medie superiori di ogni tipo di scuola e di ogni estrazione sociale, culturale, etnica e religiosa – ho visto che la bocciatura è sempre un dramma: è per il ragazzo un primo insuccesso nel rapporto con la realtà che può incrinare legami affettivi e che può sfociare in quella che chiamiamo devianza sociale. Per questo è decisivo che il ragazzo non percepisca l’eventuale esito scolastico negativo come un giudizio sulla sua persona, ma come un momento di arresto per poter ripartire. Sulle scale di Portofranco campeggia questa frase di Plutarco: «I ragazzi non sono vasi da riempire, ma fuochi da accendere».
A me pare che il dibattito che 'Avvenire' sta accogliendo sia molto interessante, perché costringe tutti noi a rilanciare il tema decisivo di ogni società e di ogni tempo, che è il problema educativo, non relegabile agli anni dell’istruzione scolastica, ma che proprio in quegli anni vive un momento fondamentale. Concludendo mi sento di affermare che per poter educare istruendo sia determinante focalizzare tutta la nostra attenzione, il nostro impegno sul processo educativo non su come accettarnel’esito.
Alberto Bonfanti
presidente dell’associazione Portofranco
Avvenire, 4 luglio 2019