Al contrario di una certa narrazione che li definisce svogliati e distratti, sono tantissimi i ragazzi che decidono di mettersi al servizio di bambini, anziani, poveri. Lo fanno durante l’anno e pure d’estate, nelle settimane solitamente dedicate e vacanze e relax. Non si sono fermati nemmeno in tempo di pandemia, sebbene abbiano dovuto rimodulare le loro attività. A spingerli c’è il «desiderio di aiutare e di mettersi in gioco», ma anche la consapevolezza che attraverso il volontariato «si può entrare in relazione, conoscere realtà e persone nuove, apprendere competenze che nei contesti formali non si riescono ad acquisire», osserva Ivan Andreis, vicedirettore della pastorale universitaria di Torino e responsabile della formazione della Caritas per l’arcidiocesi e per il Piemonte e Valle d’Aosta. «Per una studentessa di scienze dell’educazione, l’oratorio estivo – spiega – è spesso più costruttivo di un tirocinio, perché oltre a saper relazionarsi con i bambini, deve imparare a rapportarsi con i genitori, a lavorare in team, a conoscere le normative in campo assicurativo e sanitario».
Se è innegabile il fatto che molti ragazzi «siano supportati dall’aver vissuto in contesti maggiormente sensibili», è altrettanto vero che «esiste una motivazione più concreta, ovvero la possibilità di accostare al bagaglio di conoscenze costruito a scuola uno più esperienziale, che può tornare utile nella vita e nella futura professione». Mettersi al servizio diventa così «occasione di crescita e di arricchimento personale, non solo appannaggio di chi ha determinati valori ma anche di chi li scopre cammin facendo».
«Più che la questione di fede, a muoverli – dice Andreis – c’è la curiosità di conoscere un pezzo di mondo e la voglia di dare continuità a un’esperienza già provata nelle regioni di provenienza». «Nel nostro contesto, infatti, a fare volontariato sono soprattutto gli studenti universitari, molti dei quali fuori sede e dunque non radicati sul territorio, con una personalità fortemente prosociale», rileva Andreis che è anche referente del progetto «Servire con lode», nato proprio per «non tenere separate la teoria dalla pratica, le competenze dai valori». Grazie a un protocollo firmato dall’Arcidiocesi, dalla Città metropolitana, dall’Università degli studi e dal Politecnico, dall’Istituto universitario salesiano e dall’Associazione volontariato Torino, «i giovani hanno la possibilità di svolgere servizio in uno dei numerosi enti, religiosi e non, che hanno aderito e si sono impegnati ad accompagnarli in un percorso di crescita», racconta Andreis evidenziando che questo è anche il risultato di una pastorale integrata tra la Caritas e la Pastorale universitaria. Ciò che conta, aggiunge, è «uscire dalle dinamiche tipiche del secolo scorso e smettere di misurare la qualità del volontario in base a criteri di 30 anni fa».
«La pluralità di appartenenze dei giovani di oggi e la temporalità delle loro esperienze sono caratteristiche che devono essere non screditate, ma riconosciute, stimate e nutrite – dice il formatore –. È necessario partire dai bisogni dei ragazzi e non vederli come la soluzione a un problema o all’esigenza di qualcuno». Occorre cioè «cambiare lo sguardo», offrendo ai giovani l’opportunità di «imparare e di arricchirsi come persone». È quello che è accaduto, ad esempio, con l’iniziativa «Nonni con lode», che ha visto generazioni diverse incontrarsi sulle competenze: l’anziano insegna al ragazzo a fare qualcosa, dal cucito al bricolage, e in cambio lui gli dona il suo tempo, instaurando una relazione autentica che va al di là del servizio stesso. Perché il volontariato fa bene a tutti.
Stefania Careddu
Avvenire, 23 giugno 2021