UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

I giovani «fuori corso» sono voci da ascoltare

Raffaele Savonardo (Osservatorio Giovani Unina): «In assenza di punti di riferimento a tanti ragazzi manca il timone per poter navigare nell’esistenza»
27 Marzo 2023

Tutti gli ultimi dati ufficiali parlano di un aumento del disagio psicologico tra i giovani. Il rapporto Istat 2022 Benessere equo e sostenibile (Bes), ad esempio, conferma le difficoltà affrontate dai più giovani nell’attuale periodo storico. Negli ultimi due anni la percentuale di adolescenti insoddisfatti e con un basso punteggio di salute mentale è raddoppiata. Nel 2019 erano il 3,2% del totale, mentre nel 2021 risultano essere il 6,2%. La pandemia ha aggravato la situazione. Inevitabilmente affrontare gli impegni di studio e i carichi di lavoro, le aspettative e le scadenze, diventa impresa ardua. E si può andare in apnea. In aumento anche i casi di suicidio. «I disagi psicologici, i malesseri, le problematiche che attraversano il mondo giovanile toccano tutti gli ambiti della biografia di un giovane, dall’impegno di studio alle relazioni».

A parlare è Raffaele Savonardo, professore associato di Sociologia dei processi culturali e comunicativi presso l’Università di Napoli - Federico II e coordinatore scientifico dell’Osservatorio territoriale giovani (Otg) del dipartimento di Scienze sociali dello stesso Ateneo, che da vent’anni svolge attività di ricerca sociale, formazione e animazione territoriale connesse all’universo giovanile napoletano e campano, in collaborazione con partner pubblici, privati e istituzionali. «C’è una difficoltà a reggere le tensioni afferma Savonardo - a far fronte a tutto quello che in qualche modo può generare aspettative o frustrazioni. Certo, nell’ambito universitario il fenomeno può presentarsi in modo più evidente: l’università arriva dopo il percorso formativo dell’infanzia e dell’adolescenza che è abbastanza standardizzato. Finito questo, inizia il tempo delle scelte più personali e autonome, delle responsabilità da vivere in prima persona. Questo passaggio piò generare ansie e paure, derivanti anche dal confronto con le aspettative degli altri. E qui entra in gioco il tema vero. Le aspettative che i giovani hanno rispetto al proprio futuro - prosegue Savonardo - sono sempre più in crisi, sia per il momento storico sia per l’assenza di punti di riferimenti certi nella società dell’incertezza. Non ci sono ancoraggi».

Tutto ciò porta a una biforcazione. «Riproponendo un’efficace metafora del sociologo Antonio De Lillo - spiega Savonardo - potremmo dire che i due modelli culturali prevalenti tra i giovani, campani e non, sono quelli del “velista” e del “surfista”. Il velista sa governare la propria barca, ha una meta e segue una rotta, ha il capitale sociale, culturale ed economico per fronteggiare le difficoltà della navigazione e orientarsi. I secondi hanno un capitale decisamente più debole e dunque devono affrontare le onde dell’esistenza provando a restare in piedi sulla tavola, ma non dispongono di risorse per orientare davvero il proprio percorso. Mancano di timone e di vela. Questo significa che se non hai gli strumenti dati dai capitali suddetti, il rischio è che si vada incontro a delle scelte improvvisate e di essere travolti dalle onde. In questo momento c’è un disorientamento molto diffuso che la pandemia ha alimentato. Lo noto all’università. I ragazzi che hanno vissuto la pandemia tra la fine delle scuole superiori e l’inizio dell’università sono molto insicuri, preoccupati nell’esprimere la propria voce. Gioca il condizionamento derivante dalla mancata socialità e aggregazione, dovuta alle restrizioni pandemiche, capitata in un periodo in cui, invece, arricchire le esperienze relazionali è fondamentale per rafforzare socialità e identità».

Su questo scenario problematico si innestano poi modelli culturali non scevri da problemi. «Anche un modello valoriale consumistico, basato sulla performance, può contribuire a trasmettere ai ragazzi ansia per aspettative vissute talvolta come troppo pesanti da gestire». È importante però accendere la luce anche su modelli positivi per disinnescare ansie e frustrazioni. «Per me è essenziale raccontare anche il bene - scandisce Savonardo - perché da speranza e apre orizzonti di speranza concreti. Parlare delle eccellenze presenti anche nelle università napoletane, ad esempio, non è un modo per aggiungere pressione ma occasione per far capire che le tensioni si possono gestire, che le difficoltà ci possono essere ma non devono avere per forza l’ultima parola. Undici dipartimenti su ventisei della Federico II, tanto per fare un esempio, quest’anno sono stati considerati di eccellenza e abbiamo generato laureati che oggi hanno successo in tutto il mondo. Non sono superuomini o superdonne, ma ragazzi normali ricchi di talento come tanti altri».

Del problema della centralità della performance si sofferma anche Angelo Cirillo, studente di ingegneria civile presso l’Università Luigi Vanvitelli e membro della Consulta della Pastorale Universitaria e della Cultura della diocesi di Aversa (Conpasuni). «Il modello universitario troppo sbilanciato sulla performance - spiega Cirillo - può essere causa di disagio soprattutto se consideriamo il confronto coi coetanei. A questo aspetto che potremmo definire di carattere antropologico, si guarda troppo poco. Prima ci ponevamo perlopiù un problema di dialogo tra le generazioni, tra i docenti, gli adulti, e i giovani, gli studenti. Va però considerata la questione del sentirsi valutati dallo sguardo del compagno di studi, non solo da quello dei professori. Quel compagno che magari ha passato la prova, al contrario di me; che l’ha superata con un voto superiore al mio, e via discorrendo. In sostanza, lo studiare in comunità, che è originariamente considerato una risorsa, si trasforma in problema, nella misura in cui la mia performance non si adatta a standard che la comunità ritiene ottimali. La luce va accesa non solo sull’asse verticale, insomma, ma anche su quello orizzontale. Qui si annidano spesso i motivi del malessere. Naturalmente si tratta di una dinamica non sana, ma se questa supera una certa soglia di criticità, la ragazza o il ragazzo con chi ne può parlare?».

Gli sportelli di supporto psicologico sono importanti ma naturalmente non chiudono la questione. Su quale fronte investire? «La cosa primaria - afferma Cirillo - è far sì che la comunità torni ad essere risorsa e non problema. Devo dire che negli ultimi anni l’università si sta dotando di spazi di ascolto e dialogo: i già menzionati sportelli di aiuto psicologico o anche il tutoraggio. Però in questo scenario diventa importante anche il ruolo degli organismi studenteschi. Dobbiamo trasformare le nostre organizzazioni, qualunque sia la loro natura, di rappresentanza, culturale, ecc., anche in comunità di ascolto. Prima di arrivare a chiedere aiuto a sportelli o figure specializzate, serve una rete di relazioni in cui la studentessa o lo studente si sentano accolti e magari incoraggiati a condividere problemi personali e a cercare soluzioni in uno stile di accompagnamento feriale sul quale c’è ancora lavorare da molto».

Alfonso Lanzieri

Avvenire-In dialogo, 26 marzo 20223