«Quando un’amica mi aiuta a disegnare una cosa che non sono capace di fare». «Il cortile è l’unica cosa che mi fa diventare felice». «Quando le maestre ci fanno una sorpresa». «Fare il percorso da casa a scuola con una mia grande amica». «La felicità è quando il mio papà viene a prendermi all’asilo con la bici».
Sono questi gli aspetti che fanno felici gli alunni italiani, secondo la ricerca Felici a scuola!, coordinata da Andrea Traverso, professore associato di Pedagogia sperimentale dell’Università di Genova, che ha raccolto i risultati in un volume pubblicato da Franco Angeli.
La ricerca ha coinvolto 11.441 alunni, di cui 2.993 di scuola dell’infanzia, 6.253 di scuola primaria e 2.195 di scuola secondaria di primo grado. Gli istituti partecipanti sono di 177 città, in 56 province e 16 regioni. Coinvolte anche sei scuole italiane all’estero a Buenos Aires, Londra, Madrid, Mosca, San Paolo del Brasile e Teheran. A tutti i partecipanti è stata posta la domanda: «Cosa ti rende felice a scuola?». Le cento risposte che «meglio si prestavano allo sviluppo narrativo del volume», spiega l’autore, sono state inserite nel libro. Ma tutte, continua Traverso, «contengono un seme importante e indelebile: l’originalità e per questo siamo grati per la loro lettura preziosa», aggiunge il pedagogista, che ha coordinato un gruppo di ricerca composto da dieci esperti.
Professore, perché avete scelto di declinare il tema “scuola” secondo il paradigma della felicità?
Essenzialmente per due ragioni. La prima è di natura politica: dopo due anni di scuola cupa e affaticata dalle restrizioni imposte dalla pandemia, di scuola che aveva perso il respiro, abbiamo scelto questo tema per offrire alla scuola un motivo per ripartire con slancio. La seconda ragione è, invece, di carattere culturale: imparare rende felici. E le risposte degli alunni lo confermano: quando si impara qualcosa di nuovo si è contenti.
Che cosa vi ha colpito maggiormente delle risposte di bambini e ragazzi?
L’interpretazione della scuola come un vero momento sociale, una scuola che diventa comunità attraverso il “fare insieme”. Una scuola, insomma, come luogo di socialità e di apprendimento sociale. Un altro aspetto che ci ha particolarmente interessato è l’idea che la scuola non si esaurisce nell’edificio ma attraversa la città e che il tempo-scuola è esteso a un “prima” e un “dopo” le ore di lezione. Riguarda anche, per esempio, il tragitto da casa a scuola fatto insieme a un compagno. Infine, dalle risposte abbiamo avuto la conferma che la felicità è un’esperienza molto personale e molto diversa e che, per questa ragione, la scuola deve cercare di garantire un momento felice a ciascuno.
Perché non avete coinvolto le scuole superiori? Gli alunni più grandi non hanno diritto alla felicità?
Inizialmente abbiamo contattato tutte le scuole italiane, ma poi ci siamo concentrati sugli istituti comprensivi per non allargare a dismisura il campione della ricerca. Abbiamo poi pensato che, dopo due anni di pandemia che ha colpito, soprattutto, la fascia di popolazione tra i 14 e i 19 anni, non fosse il momento adatto per porre questa domanda sulla felicità, Ma non escludiamo, in futuro, di allargare la ricerca anche alle scuole superiori.
Per come è organizzata oggi, la scuola italiana è una scuola felice?
Se pensiamo alla felicità come “benessere”, ci sono ancora molte zone d’ombra. Pensiamo alle infrastrutture che crollano o a quelle che mancano, come, per esempio, le palestre. Da questo punto di vista è necessario fare ancora dei passi in avanti. Se, invece, crediamo che la felicità a scuola passi anche dall’impegno e dalla testimonianza degli insegnanti, allora siamo tutti chiamati a metterci in gioco. La scuola italiana ha bisogno di docenti adulti e contenti di fare questo lavoro. Per questo deve essere concesso loro di sentire un senso di appartenenza all’istituzione scolastica. Un obiettivo molto complicato da raggiungere, vista la poca stabilità lavorativa di larga parte dei docenti della scuola italiana.
Una scuola felice è anche una scuola dove si impara meglio e più velocemente?
A scuola si va soprattutto per imparare. Ma qual è l’oggetto di questo “imparare”? Quello che emerge dalla nostra ricerca è che gli alunni chiedono alla scuola un cambio di paradigma e delle strategie utilizzate per insegnare. La nuova sfida per la scuola è dedicarsi alle “cose” che riguardano i bambini, a ciò che più amano fare. Per questo servono strategie didattiche innovative che facilitino l’apprendimento attivo.
Paolo Ferrario
Avvenire, 6 novembre 2022