A partire dal libro “Cuore” (1886) di Edmondo De Amicis, il racconto del mondo scolastico ha dato luogo a un vero e proprio genere letterario, un filone narrativo tra i più fecondi all’interno della letteratura italiana dalla fine dell’Ottocento ai giorni nostri, i cui autori sono spesso stati gli insegnanti stessi. Fra gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento, infatti, la scuola italiana subisce diverse importanti trasformazioni, fino alla riforma Gentile (1923), che le offre una sistemazione destinata a essere messa in discussione soltanto alla fine degli anni Sessanta, in concomitanza con l’avvento della contestazione giovanile e studentesca. Emblematica, a tale proposito, è la “Lettera a una professoressa” (1967) di Lorenzo Milani, del quale si è molto parlato in questi ultimi mesi in occasione del cinquantennale della morte.
Archiviata la fase della contestazione, a partire dagli anni Ottanta abbiamo assistito all’uscita di molti libri tesi a denunciare le storture e le assurdità del mondo scolastico nelle tonalità del comico e del grottesco: da “Ex cattedra” (1987) di Domenico Starnone al bestseller “Io speriamo che me la cavo” (1990) di Marcello D’Orta. Negli ultimi anni, invece, si è passati dai toni comici a quelli più critici, tesi a evidenziare i problemi del sistema scolastico. Le testimonianze degli autori sono un misto di sentimenti contrastanti: dall’indignazione al disincanto, dalla sfiducia alla volontà di 'resistere'.
Esemplari in tal senso sono il romanzo “La gallina volante” (2000) e il saggio “Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare” (2011) di Paola Mastrocola. E oggi? La produzione degli insegnanti scrittori sembra continuare. Tra gli ultimi volumi usciti, c’è quello di Isabella Milani, “Maleducati o educati male?” ( Vallardi, pagine 304, euro 13,90), che presenta, come recita il sottotitolo, i 'consigli pratici di un’insegnante per una nuova intesa tra scuola e famiglia'. Isabella Milani è lo pseudonimo di una professoressa e blogger che ha un’esperienza di insegnamento più che trentennale. Il suo libro è sostanzialmente un manuale, non privo però di elementi di narrazione, a partire dai quali vengono ricavate le 'regole' offerte ai lettori. Sempre più le famiglie degli alunni si pongono in una posizione conflittuale rispetto all’istituzione scolastica, anziché considerarla come un’alleata per raggiungere lo stesso obiettivo, vale a dire l’educazione dei ragazzi. Ma è anche vero che, come denuncia l’autrice, «chi educa deve avere le idee chiare», mentre oggi spesso «è confuso, indeciso, e lancia messaggi discordanti o diseducativi»: spunti per un esame di coscienza niente affatto inutile a maestri e professori.
Una scuola 'di frontiera' è invece quella raccontata da Piero Schiavo nel volume “Insegnare a studenti a zigzag. Storie di scuola, di vita e di pregiudizi” (Edizioni La Linea, pagine 144, euro 10), i cui protagonisti sono gli studenti stranieri paracadutati in Italia da vicende più grandi di loro: carestie, guerre, crisi, persecuzioni. Sono gli alunni di un Cpia (acronimo che sta per 'Centro provinciale per l’istruzione degli adulti'), studenti, scrive l’autore, «irregolari nella provenienza, irregolari nei percorsi, irregolari negli esiti». Con un’unica regolarità, purtroppo: «Quella dei pregiudizi che portano addosso come uno stigma partorito da una valutazione troppo sbrigativa o dalla non conoscenza delle loro storie». Il che ci riporta esattamente alla lezione del priore di Barbiana, assimilata da Schiavo nel suo libro, per scrivere il quale si è messo in ascolto dei suoi personaggi, ma, prima ancora, delle persone in carne e ossa su cui essi sono basati.
Per concludere c’è da segnalare il bellissimo diario di un anno scolastico pubblicato a puntate in questi mesi sul quotidiano 'L’Adige' da uno dei maggiori scrittori italiani di oggi, Alessandro Tamburini, che è anche insegnante in un istituto superiore di Trento. Speriamo vivamente che qualche editore se ne accorga, rendendosi disponibile a pubblicare gli interventi di Tamburini in un volume: ne verrebbe fuori un buon volume e sarebbe un vero peccato non poterlo leggere.
Roberto Carnero
Avvenire, 25 luglio 2017