Si chiamano soft skills, competenze 'non cognitive'. Non perché siano la negazione di quelle intellettive ma piuttosto perché le completano, contribuendo a rendere unica e ricca la personalità di ogni soggetto. Non si tratta di capacità tecniche ma di attitudini che riguardano l’interazione con gli altri e la conoscenza di sé. L’inclinazione all’autonomia e alla leadership ne sono esempi, così come la capacità di lavorare in team e la fiducia in sé stessi, l’adattabilità e la resistenza allo stress, la propensione alla comunicazione e al problem solving. Sono soltanto alcune delle abilità sempre più ricercate nel mondo del lavoro, sulle quali investono numerose aziende. E intanto cosa fa la scuola? A che punto si trova il nostro sistema scolastico sul fronte delle cosiddette 'competenze trasversali'? Molto indietro. Sono ancora pochi infatti in Italia gli istituti che lavorano su tematiche come la capacità comunicativa oppure l’intraprendenza, cioè saper sviluppare idee e organizzarle in progetti come se fossero materie curricolari. E ancora meno sono quelli in grado di misurarne in maniera oggettiva l’efficacia dell’insegnamento, al contrario di quanto accade nel resto d’Europa.
È di questo parere Tommaso Agasisti, direttore del corso 'Gestire scuole innovative: misurare, valutare e promuovere le noncognitive skills di studenti e docenti' che il Mip Politecnico di Milano, la Business School dell’ateneo, ha di recente organizzato in collaborazione con Scuole Faes Milano. Destinatari i dirigenti scolastici e i loro collaboratori. «La scuola ha bisogno di essere rinnovata», afferma con decisione l’esperto. «La visione sui bisogni degli studenti è limitata. Trascura l’impatto che nella formazione di un giovane portano abilità e attitudini diverse da quelle legate al bagaglio culturale o tecnico. Nella realizzazione di una persona non conta solo il rendimento scolastico ma anche la sua personalità: è infatti dalla costruzione completa di sé stessi che si realizza al meglio il profilo professionale. Noi abbiamo indirizzato questo concetto nella ricerca, dalla quale abbiamo ricavato gli strumenti che adesso vorremmo trasmettere alle scuole».
Già, perché la teoria non basta: non è sufficiente che gli istituti si aprano alla richiesta di competenze trasversali da parte del mondo del lavoro. Occorre che siano definiti concretamente obiettivi e programmi, bisogna organizzare materie, tempi e spazi. «Questa è l’idea di fondo del nostro progetto formativo: fornire a presidi e insegnanti strumenti manageriali per coltivare nei ragazzi risorse utili alle aziende ma soprattutto per riuscire a individuare attitudini, magari nascoste, che vanno oltre i risultati di interrogazioni e verifiche». Il direttore indica alcune delle proposte emerse dal corso. «Ripensare il tempo scuola con l’aggiunta di ore che puntino allo sviluppo delle risorse personali e una modalità diversa di lavoro tra i docenti che devono dimostrarsi più orientati a condividere gli obiettivi delle loro lezioni e più sensibili verso l’interesse dei ragazzi. Per esempio, la matematica può essere insegnata anche tramite la discussione e il confronto. Questo tipo di lavoro, che favorisce la capacità di dialogare e cooperare, altro non è che il vero e proprio teamwork, ciò che in termini aziendali significa lavoro di gruppo».
Agasisti ci tiene però a sottolineare che «non ci sono ricette ma azioni operative, peculiari a ciascuna scuola». Riconoscere e promuovere tutte le risorse personali dei giovani caratterizza da sempre l’offerta formativa di Scuole Faes, Milano, che contano più di mille studenti, impegnate nel progetto condiviso con il Politecnico. «La vocazione del nostro istituto è da sempre l’approccio tutoriale dell’insegnamento, cioè la valorizzazione di tutte le attitudini», premette Marcello Bramati, preside del Liceo classico. «Perciò condividiamo un’impostazione formativa che dia spazio allo sviluppo dei cosiddetti soft skills che stiamo già inserendo nei programmi. È previsto un percorso verticale, dalle classi del nido al liceo. Secondo le diverse fasi di età si lavorerà sulla conoscenza del sé, sul significato delle regole, della condivisione e relazione. In particolare, nelle superiori saranno inserite per sei mesi due ore di 'materie trasversali'. Nel triennio si affronteranno i temi dell’etica della professione, la gestione dei conflitti, anche alla presenza di esperti: psicologi, professionisti della legge, scienziati e medici. Ma attenzione – avverte il professore – i nuovi saperi non sostituiranno quelli tradizionali. Mi spiego: proporre ai ragazzi un modo diverso e personale di accostarsi alla letteratura non significa che Dante vada solo amato: va anche conosciuto nel modo migliore. Ciò che conta è che si superi finalmente l’aut aut delle competenze e che si punti a crescere persone che oltre alle nozioni siano consapevoli di sé e del mondo».
Che l’insegnamento 'sperimentale' non sostituisca quello tradizionale è la raccomandazione di Raffaele Mantegazza, docente di scienze pedagogiche alla facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Milano Bicocca, sensibile alla necessità di una formazione completa per i ragazzi. «Mi preoccupa però la separazione dell’elemento cognitivo da quello emotivo», osserva l’esperto. «Per esempio, parlando di educazione alla leadership, bisogna tenere presente che la capacità di gestire persone e situazioni funziona solo se c’è interesse reale verso i contenuti dell’attività che si svolge, altrimenti è un esercizio fine a sé stesso. Ecco perché dico che bisogna sempre partire dal dato cognitivo: perché è dalla conoscenza che nasce la motivazione a dare il meglio di sé in un certo ambito. Il problema poi – fa notare Mantegazza – è ciò che dalle progettazioni passa realmente nella scuola, con tutte le sue rigidità e problemi. Molto spesso i progetti di formazione non cadono sui programmi scolastici e così gli studenti non hanno la possibilità di mettere in pratica concetti e metodologie nei programmi di studio», osserva il pedagogista.
«È necessario quindi che queste competenze trasversali non diventino discipline a sé stanti, scorporate dalle materie scolastiche. Ben venga la strutturazione di una didattica orientata alla partecipazione e al lavoro di gruppo, purchè si resti ancorati a ciò che si studia». Come si può tradurre in pratica scolastica? «Per esempio: gli studenti di terza potrebbero fare lezione a quelli di seconda su un argomento di storia. Sarebbe una vera esperienza di lavoro di gruppo ma soprattutto di sapere condiviso».
Paola Molteni
Avvenire – Noi Famiglia & Vita
24 novembre 2019