Il catastrofismo è meglio lasciarlo stare: «L’indebolimento della primaria è innegabile ma non è una tragedia. Semmai è un segnale di allerta. E, del resto, mettere in evidenza le fragilità perché si possa migliorare è proprio il compito dei test standardizzati, cioè uguali per tutti, come l’Invalsi». A parlare è Alessandro Sacchella che sulla scuola ha un punto di osservazione privilegiato, anzi due, perché è insegnante ma anche Tutor del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria presso la sede bresciana dell’Università Cattolica, cioè insegna ai bambini ma anche ai futuri maestri. «Il vero problema – spiega – è che i test Invalsi chiedono cose che la scuola non sempre insegna. Per esempio, il testo narrativo, espositivo o descrittivo che viene proposto alle quinte elementari non pretende solo la comprensione, ma va oltre, chiede di ragionare dentro il testo, indaga aspetti fattuali (leggo e capisco quello che c’è scritto) ma anche procedurali, concettuali, metacognitivi. Non pretende solo che si sappiano riconoscere luoghi, tempi personaggi ma che si sappia rispondere anche a domande del tipo: “se tu fossi al posto di... come ti comporteresti?”. È una cosa che la scuola insegna a fare? Non sempre e non ovunque».
I testi Invalsi, insomma, dovrebbero servire a capire cosa è necessario migliorare nella scuola per permettere ai ragazzi di imparare meglio. Di imparare tutti. «Queste prove devono essere uno stimolo per l’insegnante ad ampliare il suo modo di insegnare, da un lato. Dall’altro – prosegue il tutor – possono indicare alla scuola quali sono le priorità su cui puntare e i traguardi da prefiggersi per far acquisire agli alunni esiti maggiori. I risultati positivi non dipendono solo dallo studio del singolo ma da processi che vengono messi in campo e che hanno carattere educativo, organizzativo, gestionale». In sintesi, si cade se nella scuola si insegna in un modo e i test Invalsi chiedono altro.
«Certamente su questi risultati pesano i mesi della didattica a distanza. Ma dal lockdown possiamo trarre un grande insegnamento. Si pensava che insegnare fosse solo un passaggio di contenuti, di informazioni – aggiunge Caterina Calabria anche lei insegnante alla scuola primaria, anche lei Tutor degli studenti del corso di laurea in Scienze della Formazione Primaria dell’Università Cattolica – e abbiamo scoperto che la scuola è prima di tutto relazione, una didattica vera con la partecipazione dei bambini nella co-costruzione del proprio sapere». Il ritorno in classe, alla lezione tradizionale non è stato possibile, molti insegnanti si sono rimessi in gioco, hanno messo in campo nuove strategie, a partire dall’uso più massiccio della tecnologia, ma anche stili e metodologie diversi.
«È chiaro perché la matematica e l’italiano insegnati in modo più tradizionale – prosegue Calabria – hanno avuto risultati peggiori dell’inglese, dove nell’insegnamento esiste una spinta maggiore verso l’innovazione. Prendiamo la matematica. A scuola lavoriamo per esercizi e non per problemi, facendo fare esercizi spesso avulsi dalla realtà. Ed è proprio lì che cadono i nostri studenti: vedono i numeri e se sono messi in un certo modo vuol dire che ci vuole l’addizione. Invece l’esperienza va calata nel concreto è questo che vuole l’Invalsi, l’uso critico delle conoscenze acquisite sempre di più nell’ottica delle competenze. Dobbiamo abituare gli studenti fin dalla scuola primaria a pensare in modo inter o transdisciplinare. Non è che si fa lezione di matematica, si scollega il cervello e si passa a italiano, si scollega il cervello e si passa all’inglese... Se è questa la strada che indichiamo ai bambini non riusciranno mai a fare le inferenze, le deduzioni intese a provare o sottolineare una conseguenza logica. Invece – conclude Calabria – la realtà dimostra che a essere importanti sono proprio le inferenze, il pensiero critico, il problem solving, che è questa la prospettiva su cui lavorare in tutte le discipline, dall’italiano alle scienze. L’apprendimento come scoperta».
Nicoletta Martinelli
Avvenire, 13 luglio 2023