Bastano un paio di numeri per dare le misure della crisi educativa globale: 244 milioni di bambini che non vanno a scuola (come anche la metà dei minori rifugiati) e 24 milioni che non sono tornati in classe dopo i lockdown del Covid. Investire sui sistemi scolastici dei Paesi a basso reddito è la premessa di ogni politica di sviluppo e un contributo importante per prevenire l’emigrazione, il terrorismo, le guerre. Il G7 del 2024 presieduto dall’Italia potrà prendere decisioni importanti: «L’educazione oggi vive un’emergenza drammatica», ripete Laura Frigenti, direttore esecutivo della Global Partnership for Education, che sta visitando i governi dei sette Paesi perché mettano in agenda questa sfida.
Dopo Giappone, Regno Unito e Unione Europea, Frigenti (già direttrice generale dell’Agenzia italiana per la cooperazione allo sviluppo) ieri ha incontrato a Palazzo Chigi lo sherpa del G7: «È andata molto bene, un incontro introduttivo da cui è emerso chiaramente un interesse per l'educazione. Non dico che da sola risolva i problemi del mondo, ma senza l’educazione sicuramente non si cambia niente». L'impatto di Covid, debito, conflitti e cambiamenti climatici oggi sta mettendo in ginocchio i sistemi scolastici dei Paesi in via di sviluppo, dove 7 bambini su 10 arrivano a 10 anni senza saper leggere. Fornire 12 anni di istruzione di qualità è essenziale. «La Global Partnership for Education, che è un fondo focalizzato su questo tema, è stata creata 20 anni dal G7 con l’idea che l’educazione è importante anche per la crescita economica, istituzioni forti, democrazie sviluppate che hanno bisogno di persone con un pensiero libero».
La catastrofe del Covid però ha rallentato tutto: «A non rientrare in classe – avverte la direttrice della Gpe – sono soprattutto le bambine, rischiando matrimoni precoci e mancanza di indipendenza». I nemici della scuola sono tanti: «Il cambiamento climatico, la sicurezza alimentare,
la crisi energetica, la guerra in Ucraina che ha prodotto milioni di profughi e deviato risorse indirizzate all’Agenda 2030. Le conseguenze si vedranno tra 15 o 20 anni». Manca ancora una piena consapevolezza: «Quando ragioniamo con i leader – racconta – ci dicono “sì, è vero, ma la mancanza di investimenti nell'educazione non uccide nessuno”. Invece è un processo di slow killing, a lungo termine. L’educazione produce stabilità: pensi alla Somalia e ai terroristi di al-Shabaab, o alla Nigeria con Boko Haram. Giovani che non hanno studiato, non hanno occupazione e si sentono senza futuro. E si aggrappano a chi gli offre una speranza».
L’Italia avrà un ruolo importantissimo, «perché con la presidenza del G7 può mettere sul tavolo temi importanti. Questo governo ha una grande attenzione per l'Africa e il Medio Oriente. Il futuro di crescita di questi Paesi è legato alla creazione di una classe dirigente. Si parla del Piano Mattei per l’Africa – afferma Frigenti – ma gli investimenti per le infrastrutture da soli, se non accompagnati con una crescita delle capacità degli individui, renderanno poco. Se l’obiettivo è investire per rendere autosufficiente il Sud del mondo, c’è bisogno dell’hardware ma anche del software. Noi lavoriamo in tutti i Paesi africani, sappiamo quali sono i bisogni, cosa funziona e cosa no. Il problema è che manca una visione a lungo termine. Prevale l’interesse per ciò che si ottiene entro il ciclo elettorale».
Ma la direttrice ricorda che ci sono risultati nell’educazione non quantificabili: «Le ragazze in Iran che hanno protestato in piazza erano donne istruite, che hanno acquisito una maturità di pensiero. Non l’avrebbero fatto se fossero sempre rimaste a casa a cucinare. Un vecchio senatore repubblicano americano, Lindsey Graham, dice che il modo migliore per battere i taleban è finanziare l’educazione delle donne. Investire nella scuola non è filantropia, è anche sicurezza».
Luca Liverani
Avvenire, 16 giugno 2023