UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Il lungo cammino della scuola italiana verso la libertà

Una nuova edizione del volume di De Giorgi, Gaudio e Pruneri
3 Aprile 2024

Ricostruire la storia della scuola italiana significa rileggere la storia della nazione da una particolare visuale, un punto di vista senz’altro privilegiato. Perché dalla scuola passa una parte consistente della formazione delle generazioni che si susseguono in una nazione e sulla scuola si catalizza l’interessamento dei legislatori, dei governi, della politica. Per questo offre una lettura di grande interesse il volume Storia della scuola italiana, curato da Fulvio De Giorgi, Angelo Gaudio e Fabio Pruneri, da poco pubblicato in una nuova edizione con il marchio Scholé dell’Editrice Morcelliana (pagine 460, euro 33,00). Il discorso coinvolge i vari ordini di istruzione (dalla scuola primaria all’università) e copre, come arco cronologico, quello che va dall’Unità d’Italia a oggi.

È noto come nel 1861 l’analfabetismo fosse uno dei maggiori problemi che il neonato Stato italiano si trovò a dover affrontare: il 75% della popolazione era del tutto analfabeta, e la grande maggioranza si esprimeva unicamente nei dialetti regionali e locali, tanto che soltanto il 2,5% dei nostri connazionali di allora era in grado di comunicare correttamente in lingua italiana. In questa situazione, il compito più alto e difficile che i ceti dirigenti ebbero davanti fu ben sintetizzato dalla celebre frase pronunciata da Massimo d’Azeglio: «L’Italia è fatta, ora bisogna fare gl’Italiani».

Ebbene, in questo «fare gli italiani», la scuola giocò un ruolo cruciale, pur tra mille difficoltà. La letteratura italiana del secondo Ottocento (Edmondo De Amicis ma non solo) descrive la situazione con dovizia di particolari. La realtà della scuola era, soprattutto alle elementari, fitta di problemi: classi molto numerose (54 sono gli allievi del maestro Perboni in Cuore), ambienti malsani, stipendi da fame per chi sceglieva di insegnare. La legge Casati (1859, poi estesa a tutto il Regno d’Italia) stabiliva tra l’altro che i salari delle maestre fossero di un terzo inferiori a quelli dei loro colleghi uomini. Nelle zone rurali l’istruzione femminile veniva accettata soltanto se si riduceva ai lavori “donneschi”. Alla scuola normale femminile (quella che formava le aspiranti insegnanti elementari) c’erano perciò corsi di taglio, cucito a mano e a macchina, rattoppi e rammendi: lavori che le future maestre dovevano apprendere bene per insegnarli poi alle loro allieve.

Spiace doverlo ricordare, ma anche il clero fu spesso diffidente e svolse un’opera di ostracismo nei confronti dell’istruzione statale, colpevole di essere troppo laica. In molti settori del mondo cattolico si verificarono resistenze all’introduzione dell’istruzione obbligatoria. Il timore era che l’alfabetizzazione avrebbe sortito come portato la sovversione sociale. Timori analoghi erano anche di parte del ceto politico risorgimentale e postunitario: l’istruzione avrebbe rischiato di portare le masse non al liberalismo, bensì al socialismo. La diffidenza delle autorità civili ed ecclesiastiche nei confronti non certo di tutti, ma di un buon numero di insegnanti elementari era legata alla diffusione, presso questa categoria professionale, delle idee socialiste, di cui i maestri si facevano spesso volenterosi propalatori.Nel 1877 la legge Coppino, che istituiva la frequenza scolastica obbligatoria fino ai nove anni d’età, venne però approvata a larghissima maggioranza. Nel frattempo le cose erano cambiate, a livello di mentalità corrente, anche in seno al mondo cattolico. Non possiamo escludere che in tal senso avessero influito l’esempio e il pensiero di un grande santo “sociale” come Giovanni Bosco, che della formazione dei giovani aveva fatto il cardine del suo programma educativo.

Un fondamentale momento di svolta fu la politica scolastica del regime fascista, che vedeva nella scuola, specie quella elementare, un luogo privilegiato per l’indottrinamento ideologico e per la formazione del consenso. Si pensi all’adozione del libro unico (1929), provvedimento chiave per la fascistizzazione della scuola italiana: come scrive Pruneri, si trattò di «una scelta che, benché ammantata di finalità pedagogiche ed editoriali (fornire agli insegnanti testi e immagini migliori di quelli in uso fino ad allora, massimizzando al contempo i costi), non poteva nascondere il vero fine, cioè quello di esercitare il controllo assoluto sugli aspetti sostanziali dell’insegnamento». Nel 1923 venne varata la riforma Gentile, con una scuola che volgeva le spalle alla tradizione positivistica per esaltare invece, da un punto di vista pedagogico, la cultura classico-letteraria. Imponendo la scelta, subito dopo le elementari, fra istruzione professionale e ginnasio (il solo, quest’ultimo, che consentiva di accedere al liceo e poi eventualmente all’università) e dando centralità al liceo classico (l’unico indirizzo di studi che garantiva la possibilità di iscrizione a qualsiasi facoltà universitaria), Gentile destinò la cultura per lo più alle classi egemoni. Dunque una riforma basata su un’idea complessiva culturalmente fondata, ma sostanzialmente classista. Questa situazione verrà sanata soltanto nel 1962 con l’istituzione della scuola media unica, che quanto meno rimandava di tre anni, per i bambini che uscivano dalle elementari, la scelta del proprio futuro. Si può dire che la media unica è figlia di una nuova concezione dell’istruzione, quella della scuola democratica, i cui principi, contenuti nella Costituzione repubblicana, non sono però ancora stati ancora oggi del tutto attuati. O, meglio, sono affermati con chiarezza sulla carta, condivisi a parole da tutti (o quasi), ma non realizzati in pratica.

Se nel 1967 la Lettera a una professoressa dei ragazzi della scuola di Barbiana di don Lorenzo Milani metteva in luce i problemi in tal senso, essi da allora non sono stati ancora risolti. Periodicamente qualcuno si lancia in filippiche contro quell’idea di inclusione che negli ultimi anni ha informato le varie novità legislative, nel loro complesso più o meno buone (non del tutto buona è necessariamente una legge perché viene chiamata “Buona scuola”...), in campo scolastico. Ma il contrario dell’inclusione è l’esclusione. Qualcuno ha nostalgia di quel tipo di scuola?

Roberto Carnero

Avvenire, 27 marzo 2024