UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Se rinasco, voglio insegnare ancora

L’esempio straordinario di don Carlo. Un sacerdote salesiano e la capacità di costruire futuro con i ragazzi
6 Marzo 2024

L’educazione si basa sulla fiducia nell’altro e sulla speranza. Un educatore crede che in ogni ragazzo ci sia qualcosa di buono, un potenziale positivo in grado di lasciare un segno sulla realtà. L’educatore è uno che scuote dal torpore, che risveglia quel bene perché si trasformi in impegno, in azione. Per fare ciò è necessario mettersi in gioco, entrare davvero in relazione coi ragazzi che ci troviamo di fronte. Se si pensa di insegnare solo da dietro la cattedra, in modo asettico e neutrale, si è fuori strada. Per questo don Bosco, il fondatore dei Salesiani, ripeteva che «l’educazione è cosa del cuore». Senza relazione profonda, senza simpatia e affetto, nessun cammino educativo può davvero partire.

Quando ero alle medie, ho avuto la fortuna di incontrare un sacerdote che sapeva davvero educare con il cuore di don Bosco. Per lui, tutto ciò che ho scritto fin qui non era un bell’ideale, ma un concreto stile di vita. Quel sacerdote si chiamava don Carlo ed era il preside della scuola salesiana che frequentavo. Era una persona decisa, con un carattere forte: all’inizio del primo anno delle medie, quando ci ritrovammo tutti in teatro, mi mise soggezione con i suoi richiami perentori alle regole e alla puntualità. Ma la soggezione finì in un attimo, nel cortile della scuola, il giorno dopo, quando don Carlo mi chiese chi ero, memorizzò il mio nome in un istante e si mise a parlare con me, interessato sul serio a ciò che gli dicevo. Faceva così con tutti i suoi studenti, con una semplicità disarmante. Era il preside, ma all’intervallo e in tutti gli altri momenti liberi non se ne stava mai chiuso nel suo ufficio: scendeva sempre in cortile, passeggiava tra i gruppetti di miei coetanei sotto il portico o costeggiava il campo da calcio, dove in un allegro caos si svolgevano più partire contemporaneamente. Don Carlo stava in mezzo a noi, ci cercava: la soggezione scompariva, la sua presenza era benevola, era un punto di riferimento per tutti. Il nostro rispetto nei suoi confronti era smisurato, perché il rispetto, al contrario di ciò che si crede, si basa sulla relazione, non sulla paura. Se un ragazzo sente che un educatore gli vuole bene, si fida di quell’educatore, lo ascolta più volentieri, accetta più facilmente anche le critiche. E fidandosi, si affida, perché sa di poter contare su qualcuno.

Don Carlo, oltre che preside, era anche uno dei miei insegnanti. Io, che alle medie ero piuttosto agitato e collezionavo una nota via l’altra, durante le sue lezioni ero attentissimo. Ma non perché fosse il preside, perché era affascinante. Un giorno discutemmo di un tragico fatto di cronaca: un incidente nel quale un nostro coetaneo aveva perso la vita. Eravamo tutti sconcertati. «La vita a volte, apparentemente, può non avere senso», ci disse don Carlo. «Tutti moriremo, possiamo toccare ferro o fare gli scongiuri, ma questa è una certezza assoluta. E allora, che senso ha vivere, se tutto è destinato a finire? Eppure, il desiderio di senso rimane forte dentro ciascuno di noi. Tutti sentiamo di appartenere a qualcosa di più grande. Io credo che quel qualcosa sia un Qualcuno che mi ama, e credo che, nonostante il dolore, la mia morte non sarà la fine, ma un volo verso l’infinito, nel quale potrò vedere tutte le galassie più lontane e immergermi in abissi sconfinati». Mentre ascoltavo le sue parole, lo ricordo a trent’anni di distanza, mi mancava il respiro per l’emozione.

Un’altra volta eravamo tutti agitati: c’era la finale di Champions League e il Milan sfidava il Marsiglia. Don Carlo entrò in classe: «Che bello se fossi ricco, famoso e potente!», esclamò. «Che bello se potessi avere tutto quello che desidero! Il macchinone, l’aereo privato, vacanze da sogno quando voglio. Stasera, tribuna d’onore per tifare il Milan in finale». Che bello, sì! Mentre don Carlo parlava, mi immaginavo quella vita. Non avrei chiesto di meglio. «Ma sarei felice?», aggiunse don Carlo a bruciapelo. «Tutto questo mi basterebbe per esserlo davvero? O ci sarebbe sempre qualcosa in più da possedere, qualcosa che, comunque, non riempirebbe la mia sete?». Ci fissò a uno a uno. «Che cosa ti rende davvero felice, felice fino in fondo?», chiese.

«Cosa estingue davvero la tua sete?». Una domanda che da qual momento non mi ha più mollato. A don Carlo bastava un gesto per dire mille parole. Un giorno risposi male a un insegnante e fui mandato fuori dall’aula. Don Carlo passò e scosse la testa. Passò una seconda volta e mi rimproverò. La terza volta, però, mi sorrise: «Ho bisogno di te», mi disse. Di me? Di me che avevo risposto male al prof? Di me che prendevo tutte quelle note? Pensavo di avere capito male. «Tra un quarto d’ora è l’intervallo e io ho bisogno di te, perché di te mi fido», disse di nuovo don Carlo. «Tieni», aggiunse, e mi diede in mano il suo mazzo di chiavi: quello del preside, quello che apriva tutte le porte di tutta la scuola. Mi indicò una chiave in particolare: «Questa apre il deposito dei palloni. Scendi giù, aprilo e distribuisci i palloni ai tuoi compagni. Poi, alla fine dell’intervallo, quando te li restituiscono, mettili via, chiudi a chiave e riportami il mazzo».

Chi distribuiva i palloni all’intervallo era in quegli anni, per dieci minuti, la persona più importante della scuola. Tutti si mettevano in fila e dipendevano da lui per giocare. Don Carlo, con quel gesto, aveva dato la sua totale fiducia a me che non me la meritavo, aveva guardato al bene che c’era dentro di me, alla mia possibilità di riscatto, più che all’errore che avevo commesso. Aveva fatto un gesto educativo di enorme portata, dando una grande responsabilità a me che mi ritenevo irresponsabile, spingendo a fare qualcosa di buono e utile proprio me, che spesso pensavo solo a fare lo stupido.

Quando iniziai a insegnare, don Carlo era ancora preside. In una sera d’autunno parlammo lungamente nel suo ufficio del mio desiderio di diventare prof. Mi disse: «L’artigiano costruisce manufatti. L’elettricista costruisce impianti. Il meccanico costruisce automobili. Noi insegnanti accompagniamo ragazze e ragazzi che costruiscono se stessi, per diventare le donne e gli uomini che saranno. Noi costruiamo futuro».

Ogni tanto, in tutti questi anni, ho scritto a don Carlo. Le sue risposte sono sempre state perle preziose. Ne ricordo una in particolare, un elenco di cognomi e nomi: Federico, Alessandro, Stefania, Claudia, Giuseppe… Capii e rimasi spiazzato. Quanti volti, quanti ricordi. Sotto, don Carlo scriveva: «Caro Marco, questi sono i tuoi compagni delle medie. Conservo tutti gli elenchi delle classi che ho incontrato. Se vedi ancora qualcuno, salutalo da parte mia. Io vi ricordo sempre e vi porto sempre con me. Non potete più scappare. Voi siete la mia vita».

Oggi don Carlo è un sacerdote anziano: non è più preside e non insegna più. Ama però ancora passeggiare per i cortili, tra i ragazzi che giocano. Proprio in un cortile lo ho incontrato di recente, quando sono andato a trovarlo con la mia famiglia. Ha ripetuto ad alta voce il mio nome e il mio cognome, come per richiamare alla memoria gli anni passati. Mi ha fatto sentire accolto come un tempo. Mi ha detto: «È successa una cosa incredibile: sono venuti a trovarmi alcuni miei ex allievi. Li ricordo ragazzini di prima media e ora sono adulti, hanno le loro famiglie. Uno ha anche dei nipoti!». Ha sorriso, gli occhi pieni di meraviglia. «Quanti anni sono passati», ha aggiunto. «Quanta fatica! Quanto mi avete fatto disperare. Ma quanta vita, quante cose belle! Se rinasco, voglio fare di nuovo l’insegnante».

Trovo queste parole di una potenza straordinaria. Don Carlo è riuscito a essere un maestro ancora una volta: mi ha ricordato che una vita non è realizzata quando è perfetta e facile, ma quando è spesa con passione fino in fondo, tanto da farti dire che rifaresti tutto, perché accogli tutto quanto come un dono.

Marco Erba, Insegnante e scrittore

Avvenire, 5 marzo 2024