UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Meglio papà o il rocker Damiano? Non importa. Troviamo il positivo

È il bivio di ogni cammino educativo: farsi bastare ciò che si ha per partire da lì oppure lamentarsi di ciò che non c’è
1 Febbraio 2024

Sarcastic comment loading: questa è la scritta stampata sulla maglietta più rappresentativa del carattere di mia figlia Beatrice. Beatrice, dodici anni, fino alla fine delle elementari era una bambina composta e diligente: una che, quando doveva piangere, tratteneva pure il fiato per non disturbare. Poi, con le medie, è arrivata la magia dell’adolescenza, che l’ha travolta inesorabile. Mi sono voltato un istante ed ecco che la mia bambina era diventata una ragazza ostentatamente cinica e tagliente: capace di distruggerti con un commento sarcastico, appunto. Una ragazza che, naturalmente, adoro. Cerco, come ogni genitore, di mantenere aperto il dialogo in ogni modo. Cerco di riservarmi degli spazi con lei, che ovviamente è in una fase in cui preferisce di gran lunga andare al parco con le amiche che venire al cinema con me. Uno dei nostri momenti privilegiati è la passeggiata serale con Ivy, il pastore maremmano di quaranta chili che da tre anni fa parte della nostra famiglia.

Bea per anni ha chiesto un cane, fino allo sfinimento: «Ti prego, ti prego, ti prego, ti prego». Alla fine, abbiamo ceduto, con l’accordo che ne avremmo condiviso la gestione quotidiana. Che, naturalmente, è ricaduta totalmente su di me, soprattutto adesso che Ivy, da quel batuffolo di pelo che era da cucciola, si è trasformata una specie di orso bianco. La sera, però, faccio leva sull’accordo stabilito: «Bea, Ivy devi uscire. Visto che è il tuo cane, vieni con me». Bea mi segue piuttosto volentieri. Forse anche lei apprezza quel nostro spazio, anche se non lo ammetterebbe mai. A volte mi sommerge di domande di ogni tipo, che mi investono come tsunami e scatenano in me altre domande: «Papà, ti sei mai fatto una canna?» (Oh mamma, la mia bambina sa cos’è una canna?). «Papà, a che età hai dato il primo bacio?» (Oh mamma, la mia bambina non avrà mica già dato il primo bacio?). Altre volte, come dice la sua maglietta, carica il commento sarcastico: «Papà, tu a volte non sei gentile. Anzi, no, dipende. In generale sei gentile, ma se sei di cattivo umore non lo sei più. Del resto succede un po’ a tutti: trattano in modo gentile o sgradevole gli altri a seconda del loro umore. Anche io faccio così: quando sono di cattivo umore tendo a trattare male gli altri». Momento di silenzio. Stoccata finale: «In casa con te, la mamma e i fratelli il mio umore è nel novantanove per cento dei casi pessimo».

Un dialogo in particolare è stato memorabile. «Comunque, papà, sei proprio un boomer». «Eh? Cos’è un boomer?». «Papà, è da boomer non sapere cos’è un boomer». «Ok. E perché sarei un boomer?». «Ma è ovvio. Guardati. Si vede da come vivi, da come parli, dai tuoi interessi. Da come ti vesti, soprattutto». «Cos’hai da dire del mio modo di vestire?». «Papà, mi spiace, ma è cringe!». «Cosa vuol dire cringe?». Bea, ha sbuffato: «È cringe non sapere cosa vuol dire cringe!».

Ho continuato a camminare in silenzio, trascinato dall’orso bianco al guinzaglio che puntava verso l’area cani. Non c’era nessuno, abbiamo liberato Ivy e ci siamo seduti su una panchina. È stata Bea a riprendere il discorso: «Comunque, come padre sei decente. Cioè, poteva capitarmi anche di peggio». «Grazie, Bea». «In fondo, sei una brava persona». «Solo in fondo?». «Si, in fondo. Fattelo bastare. Va già bene». «Ok, Bea. Grazie», ho ripetuto. «Bea ha taciuto qualche istante di troppo. Non sapeva se dirmelo o no. Alla fine me lo ha detto: «Ti voglio bene, papà».

Mi si è aperto il cuore. Che meraviglia, con che semplicità me lo stava dicendo! Quanto era intenso il nostro rapporto padre figlia! Anche io le voglio bene, un bene immenso, e glielo avrei detto, stavo per dirglielo: «Anche io ti voglio bene, Bea». Ma lei non me ne ha dato il tempo. È scattata in piedi, mi ha fissato: «Ma non illuderti troppo. Voglio più bene a Damiano dei Måneskin». Cosa? Damiano? Damiano David? Ho sospirato. Del resto, come potevo competere con Damiano David agli occhi di una dodicenne? Ho deciso di farmi bastare quel “Ti voglio bene” e quel “in fondo sei una brava persona”. Me li sono fatti bastare, come mi aveva invitato a fare Bea.

Ho pensato che spesso in ogni cammino educativo ci si trova a un bivio: farsi bastare ciò che si ha, dandogli spazio e respiro, per partire da lì, oppure lamentarsi di ciò che non c’è, rischiando di diventare insopportabili, pretenziosi, lamentosi fino allo sfinimento. Si tratta di scegliere se cercare i talenti di coloro che abbiamo davanti, se lavorare perché loro stessi li vedano e li nutrano, oppure lamentarsi di ciò che non c’è e che, secondo chissà quali criteri che abbiamo in testa, ci dovrebbe essere. La prima via è quella vincente. Lo scrive mirabilmente Italo Calvino al termine di Le città invisibili, quando Marco Polo invita Kublai Khan a «cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio». Certo, Calvino stesso scrive che ciò «è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui».

Penso a certe interrogazioni tra i banchi di scuola e mi chiedo: io, docente, interrogo per cercare di valorizzare ciò che un allievo sa o per cercare di scovare ciò che non sa? Cerco il talento e lo evidenzio o cerco il limite e punto il dito? Ma più in generale, nelle relazioni educative, credo davvero che qualsiasi ragazza o ragazzo possieda una bellezza che può cambiare in meglio il mondo? Oppure mi fermo all’esteriorità e giudico? Mi ha sempre colpito moltissimo il racconto dell’incontro tra Bartolomeo Garelli, un ragazzo reietto da tutti, e Giovanni Bosco, il santo fondatore dei Salesiani, di cui domani ricorre la festa, nella Torino dell’Ottocento.

Nessuno pensava che il sedicenne Bartolomeo potesse valere qualcosa. Quando don Bosco lo conobbe, un sacrestano stava cacciando Bartolomeo bruscamente, perché incapace di servire Messa. Ma don Bosco si avvicinò a lui, con lo sguardo carico di speranza. Ne nacque un rapido dialogo: Bartolomeo disse di essere orfano, di non sapere né leggere né scrivere, di non frequentare il catechismo. Insomma, agli occhi di chi si aspetta che tutto sia come deve essere, non sapeva fare nulla di buono. A questo punto don Bosco gli chiese: «Sai fischiare?». Bartolomeo sapeva fischiare e questo, per don Bosco, valeva moltissimo. Da lì nacque un’amicizia e una vita fu salvata, perché don Bosco scelse di farsi bastare ciò che Bartolomeo sapeva fare, ciò che Bartolomeo era, invece di giudicarlo: in questa scelta c’è tutto il senso dell’insegnamento e di ogni altro cammino educativo.

Don Bosco, del resto, sapeva vedere in profondità come pochi altri. «In ogni ragazzo c’è un punto accessibile al bene», affermava. Quella sera con mia figlia Beatrice ho scoperto di essere boomer (formalmente nato prima del 1965, in senso lato “vecchio”) e cringe (imbarazzante). Ma mi ha anche detto che mi vuole bene (anche se non quanto a Damiano David, ovviamente), e che mi considera una brava persona. Mi è bastato: sono tornato a casa felice e certo, una volta di più, che sotto alle tempeste, ai silenzi e alle provocazioni dell’adolescenza restano rapporti granitici, perché radicati in quel punto accessibile al bene che tutti abbiamo dentro. Basta continuare a cercarlo, senza perdere la capacità di fischiare.

Marco Erba, insegnante e scrittore

Avvenire, 30 gennaio 2024