UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

L’ora di libertà

Lezioni di religione e Chiesa in uscita
2 Ottobre 2023

Le turbolenze che oggi il mondo vive sono date anche — forse soprattutto — da una sottovalutazione del problema educativo negli ultimi decenni. Populismi, individualismi egoistici, apatia sociale, sono figli di una crisi dei modelli educativi, tante volte denunciata e mai seriamente affrontata. In un mondo che cambia drammaticamente e con una rapidità inusitata, è forse scontato che i sistemi educativi dovessero assorbire negativamente gli effetti di questi cambiamenti. Ma ineluttabilità non significa inevitabilità futura. Per questo le pagine del nostro inserto «Religio» di questa settimana aprono un’indagine sul mondo della scuola e dell’educazione che guarda alle esperienze educative di più paesi, e che continuerà nelle prossime settimane.

Vorrei però in queste brevi righe, che mi sono suscitate innanzitutto dalla mia vita pregressa, soffermarmi su una specificità italiana: l’ora di religione. Gli ultimi tempi, forse anche in ragione della stagione sinodale, sono stati caratterizzati da un florilegio di libri sulla crisi della partecipazione alla vita della Chiesa e alla prassi sacramentale. L’unico indicatore che appare in controtendenza (o che almeno non retrocede altrettanto drammaticamente) è proprio l’adesione all’ora di religione. I ragazzi (che per lo più poi si dichiarano non credenti o agnostici) continuano a scegliere questo spazio di confronto. E non per consuetudine o condizionamento. Ma perché lo percepiscono come uno spazio di “libertà”, uno spazio in cui si sentono ascoltati. Uno spazio in cui possono esercitarsi anche in quella dimensione emotiva e, diciamo pure spirituale, che è spesso mortificata, incompresa, e svalutata; per quanto insopprimibile.

La scuola è stata negli anni ridotta a puro esercizio cerebrale, intellettuale, cognitivo. La ragione ha fatto piazza pulita di tutte le altre dimensioni umane. Come scrive il romanziere francese Eric-Emmanuel Schmitt nel libro La sfida di Gerusalemme. Un viaggio in Terra Santa (pubblicato in questi giorni dalla Lev e dalle edizioni e/o), «a differenza della ragione che sottomette il nostro spirito, la religione sollecita la nostra libertà, le presenta una visione, un programma, valori, riti e spera nel suo consenso». Aggiunge: «Alcuni detestano questa libertà»; e fa riferimento ai due schieramenti opposti degli atei e agnostici, nostalgici della ragione, da una parte, e degli integralisti e fondamentalisti della religione dall’altra. La libertà fa paura, scatta automatico il rifiuto della critica e un’allergia a tutto ciò che è incerto, in-dimostrabile, in-calcolabile, fuori misura. Ma i ragazzi cercano questo, non di essere misurati e catalogati ma ascoltati, accolti, un approccio che diventi abbraccio, che poco ha a che fare con il senso della “misura”.

Già qui una prima riflessione intra-ecclesiale andrebbe fatta. Perché l’ora di religione costituisce questo spazio e le parrocchie non riescono invece a essere attrattive per i giovani? Non è questione di linguaggi o di laicità dell’ambiente, ma essenzialmente di una realtà dialogica, di un’interattività dell’insegnamento che, a torto o a ragione, il giovane percepisce a scuola ma non in un ambito ecclesiale, e che non appartiene di regola alle altre materie scolastiche. Il tema che riunifica i tanti diversi stili in uso tra gli insegnanti di religione è senz’altro quello delle domande di senso. La vera maturazione di un ragazzo e di una ragazza è nella scoperta di doversi interrogare sul senso della propria vita, quella presente e quella a venire. E la vera qualità di un insegnante si misura nella sua capacità di saper suscitare queste domande.

La drammaticità del cambiamento d’epoca che stiamo vivendo si esprime tra i giovani con un grave carico di ansia e incertezza del futuro che li attende, che rendono l’emergere delle domande sul senso della propria esistenza ancora più attuale e urgente. D’altronde il docente di religione non è chiamato solo a trasmettere le proprie conoscenze e competenze in campo religioso, ma anche a svolgere, attraverso la testimonianza della propria relazionalità empatica, una funzione più propriamente educativa. Una funzione che oggi tende molto spesso a latitare tra i docenti delle altre materie. Il professore di religione è anche chiamato a svolgere una funzione “pastorale”, che non è certamente catechesi o proselitismo obliquo ma trasmissione di quella “buona vita” che si apprende dal Vangelo. Andando al significato letterale del termine, anche un non credente o un credente in un’altra religione può essere “evangelizzato”, cioè indotto a perseguire uno stile di vita improntato alla pace, alla custodia di una propria interiorità, all’ascolto, all’accoglienza dell’alterità, al perdono, all’amore. Da questo punto di vista non c’è dubbio che la scuola rappresenti il banco di prova più evidente di quella “Chiesa in uscita” così spesso evocata da Papa Francesco. E di questa evidenza sarebbe opportuno facessero opportuna memoria i vescovi e tutta la comunità ecclesiale. Perché una valorizzazione dell’ora di religione passa anche attraverso una riflessione su come essa è oggi svolta e come può evolvere. Per esempio pensando al numero sempre maggiore di studenti appartenenti ad altre fedi religiose, che oggi affollano le nostre scuole. Un buon insegnamento della dimensione religiosa nelle scuole contribuisce senz’altro a creare buoni uomini e donne del futuro, ma può aiutare anche la Chiesa a essere migliore e più viva.

Andrea Monda

L’Osservatore Romano, 20 settembre 2023