UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

D’Avenia, narrare è mettere in gioco la tua anima

Sull’insegnamento: “Lo stesso ragazzo guardato con amore risponde bene, guardato con sfiducia risponde male”
17 Febbraio 2021

Alessandro D’Avenia è tornato nei giorni scorsi all’Università Cattolica per fare una lezione, ormai tradizionale, al Master in “International Screenwriting and Production”, dove si diplomò a fine 2007; di lì a poco sarebbe nato Bianca come il latte rossa come il sangue, il romanzo che avrebbe cambiato, almeno in parte, la sua vita, e - dalle testimonianze appassionate che si possono leggere sul suo blog e sui social - quella di moltissimi lettori. Un impatto analogo hanno avuto i libri successivi, tutti grandissimi successi, molto amati, con molte traduzioni in altrettante lingue e Paesi. Lo abbiamo incontrato e non si è sottratto a domande impegnative.

Il 3 novembre è uscito il tuo nuovo romanzo L’appello, che ha scalato subito le classifiche e rimane fra i più venduti, segno di un dialogo con i lettori che appare sorprendente, anche perché i tuoi ultimi libri sono abbastanza impegnativi. Come te lo spieghi?

«È sempre pericoloso rispondere a una domanda in cui ti viene chiesto perché hai successo. Rischi di essere ridicolo. Se posso provare a tracciare qualche ipotesi direi che io sto portando avanti la mia ricerca personale, ogni libro è diverso dal precedente. Non uso formule di successo, ma rischio ogni volta. Cerco di essere fedele alla mia ispirazione e non alle aspettative. Quando scrissi il libro su Leopardi tutti dicevano: sarà un flop. Un saggio, Leopardi... Sei pazzo! Eppure non è solo un best (il valore di un libro non sta certo nel numero di copie vendute sul momento) ma un long seller. Cosa che è accaduta anche con gli altri libri. Questo vuol dire che le persone che mi leggono crescono con me, fanno la strada insieme a me, si fidano dell'autenticità di ciò che cerco, seppur con tante imperfezioni. E questo genera ciò che è l'unica verità che conta sui libri: il passaparola. E la parola passa solo quando apre nuove strade alla vita».

Le recensioni de L’appello parlano molto della figura del professore cieco, che è il protagonista del romanzo, e dell’idea di scuola, dell’attenzione agli studenti alla loro personalità e al loro destino, ma da quello che ho visto poche invece toccano un tema che nel libro mi sembra molto importante, cioè la rilettura di molte acquisizioni delle scienze biologiche e fisiche in un’ottica umanistica, cioè non riduzionista: che cosa dice all’uomo la forma dell’universo, la natura della luce, la distanza delle galassie… Mi sembra che in questo romanzo ci sia un forte tentativo di rileggere la cultura scientifica secondo una visione sapienziale…

«Abbiamo un rapporto con il mondo puramente funzionale e manipolativo. Gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Da quando la conoscenza è diventata sinonimo di controllo, abbiamo trasformato la realtà in oggetto. Il progresso è l'idolo moderno, e per accelerarne l'accadere, che ci darà la felicità, dobbiamo accelerare il tempo delle cose e delle persone. Questa accelerazione ci aliena da noi stessi e dalle cose: per ottenere qualcosa dagli altri o dalle cose li devi sfruttare, manipolare, rendere oggetti delle tue aspettative. Questo vale per tutto: dalle relazioni agli acquisti compulsivi. Io desidero, come ci ha insegnato la fisica del XX secolo, che torniamo ad abitare il mondo, e per farlo bisogna da un lato “dare tempo al tempo”, cioè permettete alle cose di essere senza le nostre manipolazioni e aspettative. Non sappiamo più godere la vita e il creato perché non lo lasciamo essere. La felicità oggi è sempre “qualcosa da fare” e noi diventiamo il prodotto di noi stessi e questo ci rende spesso insoddisfatti e sempre stanchi. Proprio la scienza del XX secolo si è liberata dal pregiudizio positivista che esista una realtà oggettiva, invece tutto è relativo alla posizione che l'osservatore decide di prendere. Come nell'insegnamento: lo stesso ragazzo guardato con amore risponde bene, guardato con sfiducia risponde male. Dobbiamo trovare un rapporto di nuovo umano con il tempo, e quindi con le cose e le persone. Ogni elemento del creato è parte di noi e solo in noi trova il suo compimento. E lo sguardo che consente alle cose di fiorire nel tempo giusto è l'amore».

Sin da Bianca come il latte rossa come il sangue nei tuoi libri si parla senza timore di fede, del nostro destino eterno, del senso più profondo della vita e degli avvenimenti…

«Come diceva Cormac McCarthy in una intervista, nei miei libri parlo solo di due cose, le uniche che contano, la vita e la morte. Il resto mi annoia. Il compito della letteratura è mettere l'uomo di fronte al suo destino, perché l'essenza della narrazione è mettere in scena l'uomo che agisce (non necessariamente fuori di sé). La letteratura è un distillato dell'esperienza umana, chi non legge non vuole fare esperienza perché ne ha paura. L'uomo si rivela quando agisce, quando impegna la sua libertà. Per chi si interroga sul senso della vita, sul destino, omettere la domanda su Dio sarebbe come parlare di miele senza chiedersi chi sono e cosa fanno le api. Quello che mi piace della Bibbia è che ti parla di Dio narrativamente, cioè come interlocutore con cui parlare, camminare, litigare, combattere... Anche quella è una storia. E poi penso a Iliade e Odissea che cominciano entrambe con il concilio degli dei, penso a Dante, a Dostoevskij, a Nietzsche... tutti i più grandi interrogano Dio in ogni pagina, fosse anche solo per tirarlo giù dal cielo».

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Armando Fumagalli

Cattolica News, 10 febbraio 2021