Istruzione ed educazione devono andare di pari passo nel percorso formativo. Una strada che ha il compito di restituire alla scuola la sua funzione di formare dei cittadini a 360 gradi, di attivare il cuore e la curiosità di ogni bambino. D’altronde «l’incremento della conoscenza è il primo fattore di sviluppo» e i dati lo dimostrano: il miglioramento dell’1% dei risultati dei test scolastici, porta a una crescita fino al 4% del Pil. Ecco perché educare vuol dire «tenere in considerazione tutti gli aspetti della persona, non solo il nozionismo». Così l’autonomia delle scuole (in termini di programmi, assunzione insegnanti, stipendi e budget), libertà e parità diventano i punti fondamentali per programmare il cambiamento, superando le posizioni ideologiche anche tra istruzione statale e paritaria. Lo spunto per la discussione sono proprio le riflessioni contenute nel libro Far crescere la persona. La scuola di fronte al mondo che cambia, curato dal presidente della Fondazione per la sussidiarietà, Giorgio Vittadini. E intorno ad un tavolo, nella sala Aldo Moro a Montecitorio, ci sono l’attuale ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli e due ex di viale Trastevere: Mariastella Gelmini e Luigi Berlinguer.
Reclutamento degli insegnanti e fine del precariato, valutazione delle scuole e il sempre più stretto legame tra banchi e mondo del lavoro sono tre cantieri aperti sulla cui necessità tutti convergono, al di là delle appartenenze partitiche. Certo chiunque si è trovato sulla poltrona più alta del ministero dell’Istruzione, «ha dovuto subire le cose più pesanti dal punto di vista degli attacchi non di merito, ma di modello di rappresentazione pubblica». La ministra Fedeli si riferisce non tanto alla «legittimità» di esprimere posizioni differenti su alcune innovazioni recenti, ma al linguaggio usato, «non degno di chi educa, di chi rappresenta la scuola». Ecco perché le parola «deportazione degli insegnanti » o «sceriffo» non possono essere usate da coloro che stanno in cattedra, altrimenti – si chiede – «quale insegnamento diamo?».
A chi poi, come l’ex ministro Luigi Berlinguer, crede che «bisogna reinventare totalmente la scuola» altrimenti «si sarà responsabili di un mancato sviluppo», Valeria Fedeli replica senza giri di parole. «Mi viene l’ansia quando sento che dobbiamo riformare la scuola – dice, annunciando che entro la prima decade di marzo dovrebbero arrivare i pareri del Parlamento sui decreti legislativi di attuazione della Buona scuola – Un conto è innovare, ma il tema non è la riforma generale». Sono tre infatti i punti per lei su cui occorre concentrarsi, con il coinvolgimento anche delle famiglie e della società in un «nuovo patto educativo»: la formazione nel periodo 0-6 anni, il tema della valutazione e il reclutamento del personale. Sul fronte dell’alternanza scuola-lavoro introdotta dalla legge 107, la ministra infine precisa che «è una delle condizioni del cambiamento interno della didattica, non è un apprendistato». Un fraintendimento ancora presente nella società, a cui va affiancato un «cambiamento di mentalità anche delle imprese».
Al di là dei colori dei governi, perciò, è acquisita «l’idea di apprendimento duale» a partire dalle esperienze diffuse, gli fa eco Mariastella Gelmini, per cui il dibattito sulla scuola «non si può ridurre solo alle risorse da investire, ma deve affrontare la questione in chiave progettuale». È insomma una «sfida complessa» che non può non tener conto di temi come «il precariato, il reclutamento e l’occupabilità».
Alessia Guerrieri
Avvenire, 1 marzo 2017