Alla fine passerà alla storia come il “decalogo per gli smartphone in classe”, anche se il ministero dell’Istruzione di quel termine un po’ rigido, e perentorio, fino a ieri non voleva saperne. Eppure quel che è certo, in questo cambiamento epocale per la scuola italiana, «è che di regole c’è bisogno». Il filosofo Adriano Fabris, che insegna Filosofia morale all’Università di Pisa, è tra gli esperti chiamati dalla ministra Valeria Fedeli a far parte della commissione che ha redatto il testo presentato ieri dal Miur e anticipato da Avvenire.
Smartphone in classe: professore, qual è la prima cosa che ha pensato quando le è stato chiesto di occuparsi di questo argomento e, addirittura, di arrivare alla stesura di un regolamento in proposito?
Ho pensato che le tecnologie digitali vanno integrate nella scuola, non escluse. Sono partito da questa certezza incrollabile, con l’obiettivo di trasmetterla. È impossibile oggi impedire questa integrazione. Tenere gli smartphone fuori dalle classi, in particolare, significherebbe mutilare i nostri ragazzi che con lo smartphone in mano, o a portata di mano, vivono. Ricordo anche che in quegli stessi giorni, all’inizio del nostro lavoro, Macron annunciava il suo divieto agli smartphone per le scuole francesi: sorrido ancora adesso pensando alla distanza che ci separa, e al passo avanti straordinario che abbiamo compiuto noi stavolta.
Ma concretamente, come può uno smartphone essere utile in classe, per una lezione. Può farci un esempio?
Le faccio quello relativo alle mie lezioni universitarie. I miei studenti tengono lo smartphone davanti a loro, mentre io affronto un argomento. Poniamo che sia la Critica della ragion pratica di Kant: li invito intanto a verificare la data in cui è stata pubblicata, dove, e per esempio a trovare sull’Enciclopedia Treccani un particolare riferimento all’opera, o una sua esegesi. Poi, a mano a mano che procedo nella spiegazione, chiedo loro di scrivere un commento su Twitter, o su Facebook, e di condividerlo. Mettendo insieme le diverse analisi, cerchiamo di arrivare a un testo comune: lo pubblichiamo e condividiamo con i gruppi di studenti di altri corsi, scambiandoci idee e opinioni, sempre grazie ai social.
È suggestivo. La sua lezione presuppone però che lei, come professore, sappia muoversi agilmente nel mondo del digitale, dei social, del web. Non teme che una parte degli insegnanti, anche per ragioni anagrafiche, non abbia la stessa confidenza con questi strumenti?
Lo temo, certo. E però credo che non possiamo fermarci davanti a questa sfida. È chiaro che il cambiamento che stiamo chiedendo ai metodi didattici e alla stessa “modalità classe” non pretende d’essere immediato, ma richiede gradualità: impareremo tutti – studenti, insegnanti, famiglie – a impiegare in modo corretto e proficuo questo strumento provando, sperimentando, affidandoci a chi ha battuto questa strada prima di noi. Nelle linee guida offerte alle scuole per affrontare questa sfida (da lunedì sul sito del Miur sarà disponibile anche una piattaforma dedicata, con materiali per la didattica e l’uso a scuola degli smartphone, ndr) ci sono per esempio tutte le buone pratiche maturate a livello nazionale e internazionale, corredate da una ricchissima bibliografia. Quello che conta è capire cosa c’è in gioco: permettere ai ragazzi di usare lo smartphone a scuola significa coinvolgerli attivamente, stimolarli alla partecipazione, metterli in connessione tra loro e il professore anche fuori dall’aula, responsabilizzarli. Ma soprattutto trasferire loro la competenza di orientarsi nel mare dei contenuti che gli sono costantemente offerti.
A proposito di connessione e dell’impiego dei social, è allarmante l’uso che è stato fatto di questi strumenti dal professore del liceo Tasso di Roma...
Un comportamento da condannare con forza. È qui però che entra in gioco l’etica della comunicazione come capacità di distinguere l’uso pubblico dall’uso privato delle tecnologie, quello didattico da quello ludico, persino il tempo dell’uso delle tecnologie da quello del non uso. Anche questa competenza dobbiamo trasferire ai ragazzi, e dobbiamo maturare il più possibile come educatori.
Viviana Daloiso
Avvenire, 20 gennaio 2018