Nel 1964 usciva un saggio di Umberto Eco destinato a diventare celeberrimo, Apocalittici e integrati, in cui l’autore definiva, in relazione alle «comunicazioni di massa» e alle «teorie della cultura di massa» (come recitava il sottotitolo), i due tipi di atteggiamento che l’intellettuale tendeva alternativamente ad assumere. Gli 'integrati' erano coloro che valorizzavano gli aspetti positivi della nuova realtà (la democratizzazione della comunicazione, l’accesso alla cultura consentito a gruppi sociali che prima ne erano esclusi, l’abbassamento del costo economico dei prodotti culturali, eccetera), mentre gli 'apocalittici' evidenziavano i risvolti negativi di tali novità.
Possiamo affermare che anche rispetto ai cosiddetti 'new media' (computer, tablet, smartphone, internet, social network) in questi ultimi anni si è definita un’analoga polarizzazione. In realtà, la schiera degli 'integrati' appare molto più cospicua di quella degli 'apocalittici'. Soprattutto quando si parla dell’inserimento delle nuove tecnologie nel mondo della scuola, dell’apprendimento, della formazione, è difficile trovare chi si schieri apertamente contro tale prospettiva. Dai politici ai dirigenti scolastici, dai pedagogisti agli insegnanti, salvo rari casi, si tende a cantare 'le magnifiche sorti e progressive' della realtà virtuale in termini di valore aggiunto rispetto alle tradizionali modalità di trasmissione del sapere. È quindi prezioso – anche solo per il fatto che si pone contro corrente – il contributo alla discussione offerto dal neuroscienziato tedesco Manfred Spitzer, autore di un volume intitolato Solitudine digitale (traduzione di Claudia Tatasciore, Corbaccio, pp. 434, euro 19,90). Il sottotitolo del saggio è eloquente: «Disadattati, isolati, capaci solo di una realtà virtuale?». Il soggetto sottinteso sono i nostri ragazzi. Spitzer mette in luce un paradosso: se i cosiddetti 'nativi digitali' sono già per conto proprio propensi a utilizzare le nuove tecnologie in maniera massiccia, è quanto mai discutibile che le istituzioni formative dei Paesi avanzati tendano a portarli ulteriormente in questa direzione attraverso le politiche scolastiche. Parliamo di slogan del tipo «Una lim in ogni classe» (ricordiamo, per i non addetti ai lavori, che la lim è la 'lavagna interattiva multimediale', una periferica collegata a un computer connesso a Internet) o «Un tablet per ogni studente». C’è l’idea, insomma, che l’apprendimento migliori tanto più quanto più le scuole diventano tecnologiche. Spitzer – dopo aver cominciato a esprimere le sue perplessità in un libro intitolato Demenza digitale (che, tradotto in Italia sempre da Corbaccio, è giunto rapidamente alla quarta edizione: segno di quanto l’argomento fosse centrato) – ora rincara la dose nel nuovo volume, che potrebbe essere definito un pamphlet per la nettezza delle tesi che esprime, se non fosse che presenta una vasta mole di dati e di documentazione che ne fanno un contributo scientifico a tutti gli effetti. «Le tecnologie informatiche digitali – scrive lo studioso – distraggono e compromettono la concentrazione e l’attenzione.
Ostacolano i processi formativi, invece di agevolarli come spesso si afferma. A tal riguardo, gli studi sull’introduzione dei computer a lezione sono deludenti o addirittura imbarazzanti e non giustificano in alcun modo gli investimenti sulle tecnologie informatiche digitali». E aggiunge: «Anche le ulteriori argomentazioni a sostegno di tali investimenti (trasmissione di competenze mediatiche a garanzia di pari opportunità per i bambini delle classi sociali svantaggiate) non trovano alcun fondamento empirico nei dati raccolti: al contrario: i computer accentuano le differenze tra ricchi e poveri nell’ambito dell’istruzione».
Spitzer spiega inoltre che l’accesso a Internet nelle scuole e nelle università ha un effetto sostanzialmente distraente e che il ricorso alle tecnologie digitali riduce il livello dell’elaborazione personale nella fase dell’apprendimento.
Ora, anche se non vogliamo accettare per oro colato tutto quanto afferma il neuroscienziato tedesco, sarebbe comunque saggio provare a prendere in considerazione il suo allarme, quanto meno per controbilanciare l’entusiasmo acritico di chi sposa, sempre e in ogni caso, la prospettiva di qualsiasi novità tecnologica venga proposta o, peggio ancora, calata dall’alto (spesso, ahinoi, da una politica succube di interessi industriali neanche troppo nascosti). Se qualcuno forse accuserà Spitzer di una nuova forma di luddismo, ci sembra che la sua riflessione metta in luce come a fare una buona scuola siano le persone che la abitano e le idee che vi portano. Cose che non possono in alcun modo essere sostituite dalle 'macchine', materiali o virtuali che siano.
Roberto Carnero
Avvenire, 29 ottobre 2016