Caro direttore, tutti gli studenti vogliono ritrovarsi in aula e hanno buone ragioni per chiedere che la scuola torni alla “normalità” negata loro dalla pandemia. Anche i governanti puntano a ripristinare la “normalità”, ma – dicono – in sicurezza sanitaria. Cosa però vuol dire “normalità”? La pregressa normalità poneva la scuola italiana all’ultimo o penultimo posto nelle classifiche con le quali l’Ocse mette annualmente a confronto i risultati degli studenti dei Paesi aderenti a quell’organizzazione internazionale. Ridurre l’ambizione della scuola dell’Italia postpandemica a mantenere le ultime posizioni nelle comparazioni con gli altri sistemi formativi europei sarebbe esiziale per il nostro Paese, se è vero che anche le future sfide economiche si giocheranno sulla qualità del capitale umano che ogni Stato riuscirà a mettere in campo nella competizione internazionale. Purtroppo in Italia, oltre alle note carenze dell’edilizia scolastica, pochi sono i laureati e diplomati, alta la dispersione scolastica, quasi assente l’istruzione degli adulti, insufficienti i fondi per la ricerca, basso e territorialmente squilibrato il livello medio raggiunto dagli studenti al termine dei corsi di studio. Per esempio le statistiche evidenziano che, nell’era delle tecnologie, 25 studenti su 100 non superano il “minimo” livello in scienze; in matematica i risultati non sono granché migliori.
Per aumentare la efficacia del sistema occorrerebbe rivedere la rigidità dei modelli organizzativi, la didattica trasmissiva, la standardizzazione dei piani di studio, il proficuo e permanente utilizzo delle tecnologie, la formazione in servizio dei docenti, l’incentivazione alla qualità (finora ostacolata da rigidità sindacali); insomma processi strutturali e metodologici innovativi che richiedono un’ampia e coerente visione da perseguire con costanza, requisito che i decisori (o indecisori) politici sinora hanno oggettivamente mostrato di non possedere. Ecco perché la vecchia normalità del passato remoto non è sufficiente e diventa un traguardo solo per coloro che intendono mantenere o conquistare la “maglia nera” della coda della classifica. Diciamo che il mio vorrebbe essere un “pro-memoria” per il governo Draghi e il nuovo ministro dell’Istruzione...
Enzo Martinelli, direttore generale MIUR a riposo
Il premier Draghi è uomo di poche e pesate parole, ma ha già fatto capire in molti modi di considerare la questione educativa e, dunque, la sfida di rilanciare la formazione scolastica una delle grandi priorità. Proprio come il presidente della Repubblica Mattarella. E non è un mistero – ne ha scritto più volte anche su queste colonne – che il neoministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha idee chiare e consapevolezza dei problemi che in buona parte lei, caro dottor Martinelli, richiama con efficacia. E ai quali io ne aggiungo tre: 1) l’inizio puntuale con tutti i docenti (di materia e di sostegno) al loro posto dell’anno scolastico (nodo, anche questo, ben chiaro a Draghi); 2) la valorizzazione autentica di un Sistema pubblico d’istruzione che da più di vent’anni, sulla carta della legge Berlinguer, è basato sui due pilastri (essenziali seppur asimmetrici) della scuola statale e della scuola non statale paritaria; 3) impegno concreto per una seria e convinta ricostruzione di ruolo e reputazione (che fa rima anche con retribuzione, almeno secondo gli standard degli altri Paesi fondatori dell’Europa comunitaria) degli insegnanti nelle scuole di ogni ordine e grado. Questo governo non ha bacchette magiche, ma ha competenze e sostegno ampiamente sufficienti per avviarci con passi decisi nella giusta direzione, spero con tutte le forze che riesca a farlo perché – è vero – la vecchia «normalità» non basta e neppure interessa più, né al Paese né a chi nella scuola lavora e nella scuola si prepara, preparando il futuro di tutti.
Marco Tarquinio
Avvenire, 18 febbraio 2021