UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Floridi: «Paura e fine, vie per migliorarci»

Il filosofo di Oxford interviene a un’iniziativa della diocesi di Bologna
21 Marzo 2022

Il tema della serata delle “Notti di Nicodemo” alla quale lei, professor Floridi, parteciperà è «Paura e fine». Un tema che prima la pandemia, ora la guerra fanno apparire di grandissima attualità. Cosa ne pensa?

Da filosofo posso dire che è proprio l’attualità a portarlo alla consapevolezza. Una riflessione sulla paura, infatti, è costruttiva, perché essa, quando è giustificata, è una cosa buona. È da irresponsabili non avere paura, se vediamo avvenimenti orrendi e tragici intorno a noi. La paura è negativa quando è fine a se stessa, quando ci paralizza e non porta a nulla. Se invece, ad esempio, la paura che abbiamo oggi dell’aggressione, o della distruzione del clima e del mondo ci porterà a fare qualcosa, allora ben venga, perché è la premessa per decisioni giuste. Anche il fine, inteso come termine e completamento della nostra esistenza ma anche di un progetto, è importante sapere se c’è. Un progetto che non ha delle «deadlines», delle scadenze, di solito non va in porto. Se si parla della vita come se fosse infinita, senza limite, è facile che le decisioni difficili vengano rimandate. Oggi si pensa che ci sia sempre un altro domani, è la leggerezza della superficialità. Anche in questo caso avere un chiaro senso di fine è fondamentale. Se invece ci riferiamo al fine inteso come scopo, dove si arriva e dove si vuole arrivare, è fondamentale. Perché fine è sia il punto in cui tutto finisce, sia anche dove voglio arrivare ed essere contento di essere arrivato. La finitezza della nostra esistenza ci aiuta a capire quanto dovremmo fare per renderla ricca di valore, sfruttarla nel senso buono. Chi non ha né paura né un senso del fine, vive una vita difficilmente più etica di chi invece la paura e il fine ce li ha ben presenti.

Lei ha analizzato gli effetti, spesso devastanti, che la pandemia ha avuto sui giovani. Anche questa guerra rischia di averne altrettanti, e non solo sui giovani?

Penso che l’effetto devastante sia quello di alcune certezze che sono state date per scontate, come la pace in Europa. Oggi è più facile irrobustire il pensiero di un’Europa pacifica, forte, unita proprio alla luce del fatto che queste certezze sono venute meno. Allora la devastazione anche psicologica delle nostre certezze che l’Ucraina, ma anche la Jugoslavia solo qualche anno fa, e la pandemia stanno producendo, sfruttiamola per capire cosa abbiamo avuto e cosa vogliamo avere, cioè un’Europa che tenga a freno gli istinti peggiori della guerra, della violenza, del sopruso politico.

Paura e fine sono da sempre un binomio nella vita dell’uomo. Come è presente oggi?

Occorre contrastare una cultura che ha fatto della nostra temporalità quasi un imbarazzo. La cultura più commerciale, pubblicitaria, consumistica, che ci nasconde la morte e tratta la malattia come un difetto, come se l’uomo fosse un frigorifero che non funziona: lo butti e ne compri un altro, «fa a pugni» col binomio di paura e di fine. E allora io mi metto dalla parte della temporalità e del fatto che occorre averla presente. Uno scherzo che faccio con persone meno attente è la domanda: quante settimane pensate di avere di vita? In realtà, sono solo alcune migliaia.

Come filosofo, quanto pensa che il pensiero possa contribuire ad affrontare e dare risposte alle domande che paura e fine, e in particolare la paura della fine, suscitano nell’uomo?

La filosofia può fare tantissimo. Lo fa da sempre. Lo fa in maniera classica, ma anche in maniera rinnovata. La filosofia non è quella cosa che non cambia mai, che abbiamo acquisito essenzialmente dai tempi degli antichi greci e qualche romano. Certo, la filosofia è anche solo l’atteggiamento saggio e riflessivo per fare i conti con la vita, ma per questo bastano i suggerimenti di nonna o nonno. La filosofia invece può contribuire a dare senso e a disegnare il progetto di vita all’interno della finitezza. Allora diventa un’arte, l’arte del disegno concettuale della nostra esistenza e della nostra società. E questa arte, come le altre, si rinnova sempre, è contestuale, vive di un passato, ma si esprime verso il futuro. È questa la filosofia che noi riteniamo con la «F» maiuscola.

Lei si occupa in particolare di filosofia e sociologia dell’informazione. Come può e come deve l’informazione affrontare i temi della paura e della fine?

Questa branca della filosofia, che ho io stesso in un certo senso creato quasi tre decenni fa, era chiara a tutti e qualcuno voleva darle un’etichetta e fare i primi passi. Era, per così dire, un’analogia un po’ arrogante. Perché oggi il concetto di informazione ci permette di avvicinare molti problemi, sia classici sia nuovi, secondo me dal punto di vista giusto, che ha più senso per la realtà che ci circonda. Due esempi a proposito di finitudine e di paura. Il concetto di identità personale, cioè di chi sono e della natura finita del mio essere, alla luce dell’evoluzione digitale, delle tecnologie dell’informazione, è cambiato molto. Oggi parliamo di identità digitale, dei «miei dati», della «mia privacy»: c’è una ricchezza in più rispetto a quello che conoscevamo. E prendere dal passato per avere più comprensione, l’informazione lo fa di natura. Riguardo alla paura. consideriamo quella della guerra in Ucraina e prendiamo ad esempio il concetto di sovranità: se l’Ucraina è o non è uno Stato sovrano, in che misura si esercitano la sua sovranità e quella russa. Ma oggi il concetto di sovranità dev’essere interpretato anche alla luce di quello di informazione, di rivoluzione digitale: la sovranità digitale. Oggi quando Putin dice: «Mi state facendo la guerra, bloccando contro di me il sistema bancario dello Swift» sta parlando di sovranità digitale contro una sovranità analogica, da XX secolo. Insomma, tutti questi fenomeni diventano subito più interpretabili, ma anche più risolvibili, se presi dall’angolatura dell’informazione.

Computer e digitale hanno portato un nuovo modo per affrontare paura e fine? O le hanno oscurate?

Credo che, come per tutte le grandi rivoluzioni, ci sia un duplice effetto. Il digitale da un lato trasforma tutto, ribaltando la situazione alla quale eravamo abituati, e quindi ci fa ripensare alla nostra identità: chi siamo, chi vogliamo essere, dove stiamo andando, che società vogliamo costruire. Questioni che poi, di volta in volta, ricevono risposte diverse a seconda del periodo storico. Però al contempo ha anche un effetto distraente: se non facciamo attenzione, finiamo a pensare che oggi la cosa più importante sia parlare della start up, del prossimo IPhone e così via, perdendo di vista il fatto che c’è una trasformazione culturale che sta cambiando il senso in cui viviamo. In questa dialettica si inserisce la capacità della nostra cultura sociale e individuale di fare la differenza.

Qual è la sua posizione sulla risposta cristiana all’enigma della fine, cioè la risurrezione?

Vivo ciò in maniera problematica. Io sono stato cattolico, adesso non lo sono più, sono un agnostico, ma l’agnostico più «friendly» nei confronti della fede. Ma ho difficoltà nell’entrare in uno spazio mentale che ho, che avevo, che mi manca, ma nel quale non sono più in grado di operare. Allora la resurrezione, la risposta cristiana, le trovo straordinarie e le invidio a chi riesce ad abbracciarle in pieno, senza ipocrisia, non per una sorta di fuga dalla realtà. Mi resta un atteggiamento a metà strada, come colui che ha lasciato un posto e si ritrova nel deserto e qui non ha né il posto che ha lasciato né ha trovato l’oasi dove voleva arrivare.

Chiara Ungeundoli

Avvenire Bologna Sette, 20 marzo 2022