UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Università, cambia la selezione dei prof

Con il decreto sul Pnrr rivisto anche il reclutamento dei ricercatori universitari. Critiche le associazioni
10 Luglio 2022

Eliminazione degli «assegni di ricerca» e introduzione di veri «contratti di ricerca» di durata biennale, rinnovabile, con «garanzie e retribuzione da lavoro dipendente». Introduzione della figura unica del «ricercatore a tempo determinato tenure track » (Rtt) – al posto delle figure di ricercatore Rtd-A e Rtd-B previste dalla legge Gelmini del 2010 – della durata massima di sei anni, non rinnovabili, ma con la possibilità di diventare professore associato già a partire dal quarto anno, una volta ottenuta l’abilitazione scientifica nazionale (Asn). A chi è stato per almeno tre anni Rtd-A o assegnista è garantita una quota del 25% per favorire l’accesso alle posizioni di Rtt.

Anche le università, come già avviene negli enti pubblici di ricerca, potranno assumere «personale di elevata professionalità con qualifica di tecnologo a tempo indeterminato», con compiti di «supporto e coordinamento della ricerca, promozione del processo di trasferimento tecnologico, progettazione e gestione delle infrastrutture, nonché di tutela della proprietà industriale», si legge nella norma votata nei giorni scorsi e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale.

Sono tra i principali contenuti della riforma del reclutamento universitario, che modifica la legge 240/2010, votata dal Parlamento nell’ambito dell’approvazione del decreto sul Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr). Secondo il Portale dei dati dell’istruzione superiore del Ministero dell’Università e della Ricerca, al 2020 il personale docente e ricercatore nelle Università italiane ammontava a 100.069 unità (di cui 40.211 donne), con 46.245 docenti di ruolo, 9.808 ricercatori a tempo determinato e 15.489 titolari di assegni di ricerca. Che, appunto, la riforma intende sostituire con contratti di ricerca, «finanziati in tutto o in parte con fondi interni ovvero finanziati da soggetti terzi, sia pubblici che privati, sulla base di specifici accordi o convenzioni », dice la legge.

«L’importo del contratto di ricerca – sottolinea nella norma – è stabilito in sede di contrattazione collettiva, in ogni caso in misura non inferiore al trattamento iniziale spettante al ricercatore confermato a tempo definito». Praticamente, stando alle tabelle degli stipendi della legge 240/2010, 1.207,90 euro al mese. Una cifra che, secondo la decima Indagine nazionale dell’Adi, l’associazione dei dottori di ricerca, «è insufficiente a garantire una vita indipendente » al 90% dei ricercatori italiani, la cui maggioranza percepisce «una borsa minima di 1.130 euro netti al mese». E che per questo la riforma prevede di aumentare. L’approvazione della riforma sta provocando anche la reazione delle associazioni di ricercatori e docenti universitari.

L’associazione Roars, per esempio, si sofferma sull’eliminazione della commissione nazionale per la valutazione degli idonei all’Abilitazione scientifica, i cui requisiti saranno valutati con un «controllo automatizzato» attraverso «parole chiave e Intelligenza artificiale», domandando, provocatoriamente, se non sia il caso, a questo punto, «di affidare alle macchine la valutazione del valore scientifico dei futuri professori universitari ». Roars esprime perplessità anche sulla scelta di «tornare al sistema dei tre idonei» al posto di ricercatore, «entro cui scegliere discrezionalmente, senza che gli altri due possano appellarsi al Tar o ai giornali » e sulla composizione delle commissioni di concorso, che secondo la riforma saranno formate da un membro interno e quattro esterni, sorteggiati dall’Albo qualificato dei Commissari del Ministero dell’Università e della Ricerca. «Se da un lato il sorteggio di quattro commissari su cinque sembra un argine ai localismi – si legge nel sito dell’associazione – la “Definizione di obiettivi collegati allo sviluppo di Ateneo” consentirà di pilotare la selezione tramite una accorta profilazione del posto messo a concorso».

Critica mossa anche dall’Andu, l’Associazione nazionale dei docenti universitari. «Finalmente il potere baronale è salvo – scrive l’Andu –: si conferma, anzi si consolida, il suo pilastro fondamentale, cioè la cooptazione personale. Inoltre, con la prevista rosa di idonei, sarà probabilmente più difficile l’intervento della magistratura (ricorsi, indagini). Così – conclude l’Associazione – si elimina del tutto la possibilità che possa sfuggire di mano del singolo professore l’esito del “suo” concorso».

Paolo Ferrario

Avvenire, 9 luglio 2022