Non basta un bel voto per testimoniare la buona riuscita del percorso educativo di un allievo. Come non basta un riconoscimento Invalsi per garantire che un insegnante stia realmente formando alunni capaci di affrontare la vita. Eppure viviamo in un tempo in cui l’esperienza scolastica è ridotta o a un’ansia da prestazione con traguardi da raggiungere per giustificare il proprio valore o, riferendoci soprattutto ai docenti, a una infinita serie di protocolli burocratici da rispettare e che generano ansia. A fronte di un andamento diffuso caratterizzato da forte formalismo e moralismo, per cui si delega alle istituzioni lo sviluppo educativo di un minore, alcune storie di giovani insegnanti mi hanno aiutato a focalizzare la questione. Perché è dagli educatori che bisogna partire. Essi riescono realmente a “generare” personalità dal cuore infiammato se sono stati a loro volta “generati”. E, al tempo stesso, se vivono una compagnia che li incoraggia, corregge, supporta.
Le storie di Giovanni, 34 anni, insegnante di Scienze motorie a Catania, e di Letizia, catanese, 40 anni, maestra elementare in provincia di Ferrara, ci aiutano ad andare più a fondo. «Quando ero in quinta ginnasio – racconta Giovanni – fui bocciato. Quell’anno ero davvero turbato e non sapevo se continuare gli studi. Durante l’estate l’unica che mi chiamò fu la prof di religione. Quella chiamata, quel “come stai?” mi stupì e mi colpì profondamente. “C’è qualcuno che si accorge di me” pensai. Si aprì un dialogo e la mia vita si rimise in moto». Giovanni decise di continuare gli studi e ripetere l’anno con il desiderio di scoprire cosa c’entrasse lo studio con la sua vita. «Da quell’incontro – prosegue il giovane, che ora è padre di due figli cominciai a essere presente durante le lezioni di religione. Mi colpiva come si discuteva con passione dentro la classe sul senso delle cose e della vita partendo dai fatti che accadevano».
A partire da quell’incontro, l’allora studente scoprì una compagnia cristiana in cui vivere normalmente quella eccezionalità che aveva sperimentato in classe. E decise di sacrificare alcune partite di calcio per andare con alcuni suoi compagni e la prof di religione in un quartiere degradato di Catania per fare doposcuola ai bambini in difficoltà. «Quella esperienza mi ha educato a essere più umano e mi aiuta adesso a guardare in profondità i miei allievi». Oggi Giovanni è il presidente di quella associazione di volontariato in cui cominciò da studente la sua caritativa e, come insegnante, continua a vivere la sua passione educativa.
Letizia, sposa e madre di due figlie, per motivi di lavoro è dovuta “emigrare” al Nord, ma non ha mai messo da parte l’esperienza fatta al liceo, quando incontrò alcuni compagni di Gioventù studentesca e una prof che la aiutarono, così dice, «a rientrare in se stessa». «Facevamo – prosegue - le cose che facevano tutti, ma cercavamo un di più». Quegli amici e quella prof l’hanno accompagnata nel cammino della vita. «Quello che ho vissuto da giovane, mi aiuta a vivere oggi il mio essere mamma e il lavoro di insegnante. Come? Ricordandomi che non mi posso concepire da sola». A scuola, infatti, la maestra Letizia partecipa a una comunità educante. «È un continuo allenamento dello sguardo – dice – che pian piano mi educa a guardare i bambini con attenzione grande alla loro persona e a saper riconoscere i miei limiti». È proprio vero che “per educare serve un villaggio” e che per generare personalità, occorre aver incontrato un educatore che ci abbia generati.
Giuseppe Di Fazio
Avvenire, 16 ottobre 2024
(foto da portofranco.org)