UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Un nuovo ruolo per l’università nella formazione degli insegnanti

Il presidente dei pedagogisti italiani Massimiliano Fiorucci commenta il decreto sull’aggiornamento dei docenti della secondaria.
11 Maggio 2022

Un nuovo ruolo per l’università nella formazione degli insegnanti. Il progetto del governo appena varato chiama gli atenei a svolgere un’ulteriore importante funzione. Ne abbiamo parlato con Massimiliano Fiorucci, docente di Pedagogia generale, sociale e interculturale e direttore del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre, di cui si candida a diventare rettore nelle elezioni di fine maggio. Fiorucci, 54 anni, che è anche presidente della Società Italiana di Pedagogia e autore di 250 pubblicazioni, si interessa soprattutto di pedagogia sociale e interculturale con particolare attenzione al tema della dell’inclusione degli allievi con cittadinanza non italiana, delle disuguaglianze sociali e della dispersione. In questo senso, ha dedicato grande attenzione all’opera di Roberto Sardelli (1935-2019) - sacerdote, maestro e scrittore vicino agli ultimi, che si batté per il riscatto dei baraccati della capitale sulla scia di don Milani - cui ha dedicato il volume Dalla parte degli ultimi. Una scuola popolare tra le baracche di Roma, edito da Donzelli.​

Professor Fiorucci, le più recenti disposizioni sulla scuola hanno portato in primo piano il tema della formazione degli insegnanti? Come le giudica? Pensa che vi sia un problema di accesso e formazione dei nostri docenti nei vari ordini di studio?

Il 30 aprile scorso è stato pubblicato il decreto che ridefinisce le modalità di formazione iniziale e continua degli insegnanti della scuola secondaria di primo e secondo grado attraverso l’istituzione di un percorso annuale (di 60 CFU) aggiuntivo rispetto ai titoli di accesso all’insegnamento (Lauree Triennali e Magistrali) e che ora è in discussione al Parlamento. Vi saranno impegnate tutte le Università italiane attraverso l’istituzione di Centri di Ateneo per la Formazione degli insegnanti.

La qualità di questo percorso dipenderà da alcune questioni ineludibili. La didattica dovrà avere soprattutto un carattere laboratoriale e non dovrà essere una riproposizione di contenuti la cui acquisizione avviene nei cinque anni di studi universitari precedenti. Il percorso formativo dovrà esprimere un giusto equilibrio tra Scienze dell’educazione, contenuti e didattiche disciplinari e tirocinio. Sarà necessaria una stretta collaborazione con le scuole per la gestione dei tirocini, che costituiscono l’elemento di sintesi tra teoria e prassi e, quindi, motore del percorso formativo complessivo.

C’è al momento un avanzamento sul piano quantitativo, per cui si passa dagli attuali 24 CFU a 60 CFU. Occorrerà assicurare che in fase attuativa la norma garantisca l’avanzamento qualitativo. La nostra proposta prevedeva un percorso di formazione annuale post-laurea proprio per garantire impegno assiduo, organico e coerente nella formazione degli insegnanti. E, tuttavia, sarebbe necessario prevedere la possibilità di accedere all’offerta formativa per la formazione degli insegnanti non già a partire dalla laurea triennale, bensì al massimo dalla laurea magistrale (e non prima del II anno e di un definito numero di cfu già acquisiti). Il rischio è altrimenti quello di riprodurre in forma più ampia quanto già avviene con i 24 CFU. L’organicità del percorso dovrà essere garantita dalla istituzione di attività formative ad hoc all'interno dei Centri Universitari di formazione degli insegnanti, evitando di attingere delle attività formative erogate dai corsi di laurea preesistenti non specificamente dedicate all’insegnamento nella scuola secondaria.

Come pedagogista, quali sono a suo avviso le maggiori criticità del nostro sistema di istruzione?

Abbiamo un sistema di istruzione che risente di un’idea di formazione dei docenti poco lineare e differenziato rispetto ai diversi gradi dell’istruzione. Abbiamo livelli di dispersione scolastica che ritengo inaccettabili, un livello di burocratizzazione che rischia di indebolire le migliori energie, una tendenza ad aziendalizzare la formazione… Ci sono diverse criticità su cui lavorare seriamente, ma ricordiamoci anche di quanti punti forti il nostro sistema scolastico presenta.

 

La sua produzione scientifica è molto orientata all'interculturalità. Ritiene che in Italia vi sia una buona integrazione degli studenti con background familiari e culturali di diversa provenienza? Quali sono gli aspetti da migliorare?

Negli ultimi anni mi sono impegnato nell’Osservatorio nazionale per l’integrazione degli alunni stranieri e l’educazione interculturale del Ministero dell’Istruzione. La scuola italiana è fortemente cambiata e la presenza di bambini e ragazzi che hanno origini familiari altrove è ormai un dato diffuso. La scelta di un orientamento interculturale in grado di mettere in campo strategie inclusive riguardanti gli alunni provenienti da contesti migratori, insieme a un’educazione alla cittadinanza interculturale per la valorizzazione della diversità linguistico-culturale e del plurilinguismo, rappresenta oggi una scelta efficace. Occorre naturalmente affrontare alcuni nodi critici, come la ridotta frequenza alla scuola dell’infanzia, la difficoltà nel proseguimento e nel completamento degli studi e soprattutto il ritardo scolastico degli alunni e delle alunne provenienti da contesti migratori.

L'arrivo di molti giovani ucraini ha messo in moto un processo di rapido inserimento di essi (oltre 22mila) nelle nostre scuole. C'è una preparazione adeguata in questo senso? Come stanno procedendo questi sforzi comunque generosi?

L’accoglienza di molti giovani ucraini nelle nostre scuole e l’impegno per consentire ai bambini e ai ragazzi in fuga dalla guerra di proseguire il loro percorso scolastico ed educativo nel sistema italiano rappresenta un parametro del livello di civiltà del Paese. Il Ministero si è subito attivato, le scuole anche. Sembra che si sia data una risposta eccezionale. Lo è se pensiamo ai numeri e al clima del momento storico, ma dobbiamo anche ricordare che la scuola italiana ormai da anni ha messo a punto modelli di accoglienza per minori che non sono “semplicemente” migranti economici, ma che vengono dalle guerre, dalle emergenze umanitarie, minori con un portato traumatico rilevante. Oggi ci misuriamo con questo e ci stiamo accorgendo che anni di intercultura ci hanno resi pronti ad affrontare questa urgenza.

Lei è un cultore della memoria di don Sardelli come pioniere di una scuola vicina alle esigenze dei più svantaggiati. Quale è oggi la sua eredità? Come la si può declinare con le nuove povertà nell'era della tecnologia?

L’esperienza della Scuola 725 di Don Roberto Sardelli, nata nel 1968 tra le baracche dell’Acquedotto Felice a Roma, rappresenta una delle più straordinarie iniziative di pedagogia popolare realizzatesi in Italia nel secondo dopoguerra. Don Roberto, figura singolare, intuì quanto e come l’esperienza scolastica non potesse essere disgiunta da un’esigenza viva e “militante” di partecipazione, per un’opera completa di umanizzazione. Rivendicò con grande forza così il nesso indissolubile tra scuola e politica tanto che la Scuola 725 doveva essere in grado di restituire ai ragazzi il sapere, la dignità e la capacità di leggere la realtà, ma soprattutto la determinazione alla lotta per i diritti. Il suo progetto unico e originale evidenzia allora nella società contemporanea, caratterizzata da vecchie e nuove povertà, il valore dell’educazione come strumento di sviluppo e di emancipazione.

Quali saranno le sue priorità in ambito universitario se diventerà rettore di Roma Tre, una realtà importante per la città ma anche per tutta l'accademia italiana?

Un’istituzione articolata e multiforme quale è Roma Tre non può essere gestita se non in modo condiviso e trasparente. Per un governo democratico e collegiale, il Rettore deve farsi interprete delle esigenze comuni attraverso un attento ascolto di tutte le istanze e una condivisione assidua delle decisioni. In questo quadro, la ricerca, che rappresenta anche il cuore dello sviluppo del Paese, va sostenuta in modo deciso e deve ottenere centralità nei processi decisionali. Le studentesse e gli studenti devono essere al centro della riflessione e dell’impegno degli Organi accademici, anzitutto incrementando la qualità della didattica, che costituisce la prima risposta alle loro esigenze formative, e incrementando quei servizi che conferiscono all’esperienza accademica studentesca i lineamenti di un’esperienza di vita significativa, generativa e feconda. La dimensione internazionale di ricerca e didattica è un tema strategico che non può essere gestito e affrontato in modo estemporaneo e occasionale.

Andrea Lavazza

Avvenire, 10 maggio 2022