Quale volto di democrazia uscirà da questi mesi di guerra in Europa? Sarà una democrazia rafforzata dal confronto con le autocrazie e i populismi o il conflitto porterà a sistemi di rappresentanza e di governo sempre più deboli? Sarà una democrazia ammaccata, sfibrata e sempre più debole, una «democrazia sfigurata» come l’ha definita Nadia Urbinati? La risposta è semplice soltanto all’apparenza: dipenderà dall’esito del conflitto, o meglio da come l’Occidente sarà capace di aprire un corridoio di pace con la Russia, dopo l’aggressione di Mosca all’Ucraina. In realtà, quanto sta accadendo dentro lo scenario bellico è metafora di uno scontro in atto da tempo. Correva l’anno 2003 quando l’amministrazione Bush negli Stati Uniti spiegava l’operazione militare in Iraq con l’infelice formula dell’«esportazione della democrazia».
A tanti parve evidente già allora quanto fosse difficile se non impossibile ragionare di modelli di governo calandoli semplicemente dall’alto. Il corso della storia si è incaricato poi di dimostrare quanto si stesse procedendo in direzione contraria, col sorgere degli egoismi nazionali, con l’avanzata dei populismi, con l’avvento delle autocrazie. Al potere dell’uomo solo che controlla le masse, da un decennio anche grazie alla propaganda veicolata dai social network, l’Occidente non ha saputo opporre altro che una visione indebolita della democrazia e questo si sta rivelando un fattore perdente (basti pensare al fascino ancora concreto esercitato in America da un leader come Donald Trump). Bisogna dunque ricominciare a ricostruire da luoghi nuovi e con parole nuove. In quale direzione?
Un mondo polarizzato. «La polarizzazione sulla guerra ci aiuta ad accendere un faro sui processi democratici da potenziare, in Italia come in Europa» osserva Cristopher Cepernich, che insegna sociologia della comunicazione all’Università di Torino. Gran parte dell’opinione pubblica si è trovata impreparata di fronte al conflitto e solo una minoranza ha reagito informandosi e formandosi rispetto a quel che stava accadendo. «Si continua a ragionare con categorie occidentali nostre, che non contemplano il rapporto con la storia. Prendiamo quello che è accaduto nei Balcani durante gli anni Novanta. Allora c’erano le coordinate culturali per capire come fosse disposto il mondo, il Muro era appena caduto. Invece non capimmo la ragione culturale delle faglie nei Balcani e nello stesso modo non comprendiamo oggi le fratture culturali tra Kiev e Mosca. Non abbiamo capito i serbi allora, non capiamo i russi oggi», continua il sociologo torinese.
«La verità è che il neocolonialismo della Russia è soltanto prevaricazione, mentre deve essere la comunità internazionale a farsi portatrice di sviluppo. La democrazia non si può esportare sic et simpliciter. Da Baghdad alle primavere arabe, tanti fallimenti sono lì a dimostrarlo». A parlare è Alfonso Barbarisi, presidente dell’Aidu, l’Associazione italiana dei docenti universitari, che venerdì scorso ha promosso a Roma un incontro con gli esponenti dell’associazionismo cattolico, dall’Ac alle Acli, dalla Fuci a Retinopera, passando dalle Comunità di vita cristiana al Meic: le aggregazioni del laicato cattolico hanno messo a tema la promozione del dialogo multilaterale per la pace. «Tutto nasce dall’intuizione di papa Francesco ad Abu Dhabi sul ruolo fondamentale per lo sviluppo del pianeta che hanno in questa fase storica le tre religioni monoteiste». È questo fermento culturale che va alimentato, dentro e fuori la Chiesa, per dare continuità e concretezza alla mobilitazione nonviolenta. Dopo le piazze, sarà il momento delle scuole di democrazia: luoghi in cui andare a imparare e conoscere, per evitare di restare intrappolati nella logica sterile della contrapposizione da social (o da talk show televisivo).
Cosa chiedono i giovani. «Nessuno si fa carico di 'socializzare' il valore della democrazia, di condividerne l’importanza – spiega Cepernich –. Mancano innanzitutto i luoghi, intesi come spazi dove discutere dei fatti, per maturare una visione del proprio tempo. Decenni fa, il luogo poteva essere il partito oppure il sindacato, un’associazione di riferimento, cattolica o laica, dove si ragionasse intorno a un mondo. Quei luoghi non ci sono più. Quando arrivano gli studenti all’università, spesso ci si ritrova a parlare di democrazia e poi loro ti chiedono: sì, ma come si fa in concreto?». Che l’università sia uno di quegli spazi privilegiati, nonostante tutto e proprio perché resta laboratorio di futuro per i più giovani, lo dimostra il progetto lanciato dall’associazione dei docenti universitari. «Sogniamo da tempo un 'Erasmus del Mediterraneo', che metta insieme le nuove generazioni per immaginare un domani di pace – spiega Barbarisi –. Solo uno scambio virtuoso tra gli studenti può alzare il livello di attenzione e di mobilitazione sui grandi temi e garantire il cambiamento che chiediamo. Per questo, abbiamo proposto di creare una rete tra atenei da allargare agli ultimi anni delle superiori». La sfida è sui linguaggi e sulle regole, in un momento in cui i temi della pace, della libertà, del valore della persona finiscono per essere strumentalizzati nella logica bellicista e si rischia di non distinguere più la vittima dal carnefice, l’oppressore dall’oppresso. «Non si può costruire la pace, preparando la guerra – osserva Barbarisi –. Serve un dialogo fertile, che punti a uno sviluppo economico e civile».
Istituzioni e politica estera. Anche la comunicazione della politica, nel nostro Paese e altrove, finisce così per riposizionarsi sul tifo pro o contro, sull’interesse immediato di consenso, sulla posizione di comodo che consente di lucrare voti. «Quale leader o partito della Prima repubblica avrebbe fatto le acrobazie verbali e le giravolte che tanti politici di oggi stanno facendo sull’Ucraina?» si chiede provocatoriamente Cepernich. «Proviamo a rileggere gli interventi dei segretari di partito di allora sulla crisi degli euromissili: altro spessore, altro livello, altra cultura...».
Non si tratta evidentemente di rimpiangere la stagione andata, ma di farne tesoro per farla uscire dagli scaffali della storia e assorbirne il valore per l’oggi. «Per tornare a parlare di democrazia, dovremmo prima tornare a una cultura delle istituzioni che non c’è più. La politica estera di un Paese, in questo senso, non può causare divisioni così nette nella classe dirigente. Va tenuta al riparo dalle contese, va salvaguardata. Lo dico perché anche noi abbiamo scherzato un po’ troppo in materia in tempi recenti, vittime a seconda delle volte della propaganda russa o cinese». La democrazia si salvaguarda innanzitutto con la cultura delle istituzioni, patrimonio diventato improvvisamente un lusso anche alle nostre latitudini.
Diego Motta
Avvenire, 18 maggio 2022