UFFICIO NAZIONALE PER L'EDUCAZIONE, LA SCUOLA E L'UNIVERSITÀ
DELLA CONFERENZA EPISCOPALE ITALIANA

Sorpresa: la spesa per l’istruzione sale

Fondazione Agnelli: Italia in linea con l’Ue, incentivare gli insegnanti con stipendi più alti
23 Settembre 2022

In Italia la spesa pubblica per la scuola non è inferiore a quella degli altri Paesi europei. Eppure i nostri studenti studenti ottengono risultati nettamente inferiori dei colleghi europei e ci sono enormi divari territoriali e sociali. Perché? Alcune risposte a questa domanda sono state ipotizzate dalla Fondazione Agnelli nel dossier 'Le risorse per l’istruzione: luoghi comuni e dati reali', curato dalla ricercatrice Barbara Romano, con elaborazioni su dati della Ragioneria dello Stato, del Ministero dell’Istruzione, di Eurostat e di Ocse.

«Forse in Italia, per la scuola, più che spendere poco semmai si è speso male», ha detto Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli, a commento dei risultati dello studio realizzato. La ricerca, infatti, ha smentito molte delle convinzioni largamente condivise a proposito della scuola dell’obbligo. Per esempio, quella per cui si investirebbe poca spesa pubblica nell’istruzione. Secondo quanto emerge dalla ricerca, nella scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di I e II grado la percentuale di Pil investita è rimasta stabile fino al 2020 e da lì in poi ha ripreso a salire. Rimane comunque un piccolo scarto dello 0,6% tra l’Italia e la media europea, ma questo è dovuto quasi esclusivamente alla minore spesa per l’università rispetto ai partner. Inoltre, come ha spiegato Barbara Romano, poiché in Italia stiamo assistendo a un declino demografico più marcato che negli altri Paesi europei (di quasi il 13% in dieci anni), ma la quota di spesa pubblica per la scuola è rimasta più o meno la stessa, il nostro Paese spende per ciascun studente tra i 6 e i 15 anni circa 75mila euro, una cifra che supera la media europea e quella dei Paesi Ocse.

Il secondo luogo comune, che viene smentito dallo studio, riguarda il numero di insegnanti. Negli ultimi dieci anni il loro numero complessivo nella scuola statale è costantemente aumentato. Diminuiscono, però, i docenti di ruolo, attualmente meno di 700mila. A crescere, quindi, è il numero degli insegnanti con contratto a tempo determinato, che l’anno scorso ha toccato il picco di 225mila. Tra loro anche gli insegnanti di sostegno che, per rispondere alla forte domanda di inclusione scolastica, nel giro di dieci anni sono diventati più di un quinto dell’intero corpo docente. I precari nel sostegno sono il 61% del totale, la maggioranza dei quali non sono in possesso di una specifica preparazione, con rischi gravi non solo per la continuità didattica, ma anche per l’inclusione degli allievi con disabilità.

Un dato invece del tutto confermato dalla ricerca è quello delle basse retribuzioni dei docenti italiani rispetto a quelle della maggioranza degli altri Paesi europei. Una differenza che si accentua sempre di più nel corso degli anni di lavoro perchè in Italia manca la progressione di carriera, che in altri Stati porta chi sale di responsabilità a vedere una retribuzione sempre più alta. A questo si aggiunge il fatto che tra scuola e casa, gli insegnanti italiani dichiarano di lavorare 26 ore alla settimana, contro una media europea di 33 ore. All’opposto degli altri Paesi, infatti, la preparazione delle lezioni e tante altre attività propedeutiche sono escluse dal contratto. «Gli insegnanti italiani – conclude il presidente Gavosto – vanno sicuramente incentivati con retribuzioni superiori e più dinamiche, che li avvicinino ai loro colleghi europei, introducendo anche progressioni di carriera e responsabilità. Anche i loro orari contrattuali, tuttavia, dovrebbero andare verso medie europee, per garantire un tempo scuola più lungo e diffuso, didatticamente più ricco, con una qualità dell’insegnamento elevata e sempre aggiornata, grazie a una formazione continua obbligatoria».

Elisa Campisi

Avvenire, 22 settembre 2022