«Perché leggi?». A una simile domanda posso facilmente immaginare che cosa risponderebbero in queste settimane molti studenti alle prese, prima del rientro a scuola, con i controversi 'compiti per le vacanze': 'Perché mi obbligano'. Leggere perché costretti, purtroppo, non è la migliore delle situazioni. Il verbo leggere non sopporta l’imperativo: la frase è di Gianni Rodari, ed è stata resa celebre da Daniel Pennac. Quando si viene obbligati a una certa attività, si finisce spesso con lo sviluppare avversione nei suoi confronti. Per questo è davvero un peccato che oggi scatti molto più raramente un altro tipo di motivazione, che da bambini e adolescenti ha condotto molti di noi (non ancora 'nativi digitali'...) a sviluppare la passione per la lettura. Parlo di una motivazione molto banale, ma in tanti casi decisiva: la noia. Ricordo certi lunghi pomeriggi estivi, in vacanza al mare con la famiglia, quando le ore immediatamente successive al pranzo erano troppo infuocate per correre subito in spiaggia. Ecco allora che i libri erano il 'passatempo' preferito. La 'fortuna' era di non avere a disposizione uno smartphone (dovevano ancora inventarlo), che oggi con le sue molteplici, tentacolari appendici social, finisce spesso con l’occupare la gran parte del tempo dei nostri giovani (e, in verità, anche di noi adulti). Ma voglio per un attimo tornare al tema dell’obbligo scolastico a leggere. Per spezzare una lancia a favore degli insegnanti, i quali sono chiamati a una sfida decisamente ardua. I docenti di Lettere si librano in precario equilibrio tra questi due poli: la 'necessità' di far leggere i ragazzi e il tentativo di trasmettere loro la piacevolezza, intellettuale ed estetica, di tale attività. In questo campo, come fai, rischi di sbagliare: ma non dobbiamo smettere di provarci.
D’altra parte, come scriveva saggiamente alcuni anni fa il compianto Vittorio Spinazzola, «nessuna programmazione educativa può far a meno di un aspetto impositivo. La questione è di equilibrarlo con un aspetto di rispondenza agli interessi mentali, la sensibilità espressiva, i codici di valori delle giovani generazioni nella stagione formativa». In altre parole: la lettura, a scuola ma non solo, può trasformarsi in una preziosa occasione di dialogo tra le generazioni. Leggere ci pone infatti a contatto, e a confronto, con vite, reali o immaginate, diverse dalla nostra: quale migliore educazione all’alterità? Leggere, poi, ci fa provare emozioni. Ciò avviene perché da sempre narrare costituisce una fondamentale facoltà sociale: ogni cultura ha affidato alla narrazione, al racconto, al mito, il senso di una memoria condivisa. È attraverso le parole che si connettono in un racconto che possiamo capire chi siamo, che cosa viviamo, che cosa pensiamo, i nostri sentimenti, le nostre paure, le nostre attese. La lettura, inoltre, può costituire un efficacissimo proseguimento dell’educazione linguistica. Questo perché nelle opere letterarie gli autori si riappropriano in maniera personale e autonoma della lingua, usandola non in maniera passiva, bensì riscoprendone le potenzialità inespresse o trascurate.
Così chi legge trova nel testo esempi di come i contenuti intellettuali possano essere comunicati in modi diversi rispetto a quelli proposti dagli schemi precostituiti, come quelli di una comunicazione quotidiana e massmediale sempre più stereotipata e banalizzante. Pensiamo, in opposizione ai libri, alla televisione o alla Rete. La complessità del mondo in cui viviamo tende a essere semplificata in maniera (ipocritamente) manichea; la realtà è ridotta a spettacolo (dalla politica alla cronaca nera, fino alle questioni più intime, messe in piazza senza alcuna ombra di pudore); la realizzazione di sé coincide con il successo (il successo è la dimensione spettacolare della realizzazione personale). Invece i buoni libri fanno capire che esistono mille sfaccettature, che le cose più importanti spesso sono proprio quelle che non appaiono e che fallire non è una tragedia, perché la perfezione non è di questo mondo. Tutte cose che si imparano leggendo.
Roberto Carnero
Avvenire, 5 settembre 2020