Un uomo con una vita tumultuosa, piena di avventure, assolutamente sregolata. Un uomo dedito solo al sesso, al gioco d’azzardo e al vino. Un uomo in perenne conflitto col padre, restio a dargli quel denaro che tanto agognava per soddisfare i propri vizi. Un uomo che alla fine riuscì nel suo intento: dilapidare il patrimonio familiare. Un uomo sempre al centro del gossip, come si direbbe oggi: questo fu, secondo molte ricostruzioni, Cecco Angiolieri, poeta senese vissuto a cavallo tra Duecento e Trecento. C ecco fu assai noto per le sue poesie puntute e cariche di invettive. Ebbe modo di scontrarsi in una tenzone poetica addirittura con Dante Alighieri, in una memorabile battaglia a suon di versi, nella quale definì Dante il bue e sé stesso il tafano che non gli avrebbe mai dato tregua. Nei suoi testi scrive provocazioni che, se prese sul serio, suonerebbero assai più agghiaccianti di quelle di molte canzoni contemporanee considerate troppo trasgressive e violente.
Il suo sonetto più celebre, interpretato anche da Fabrizio de André, inizia così: S’i’ fosse foco, arderei ’l mondo; s’i’ fosse vento, lo tempesterei; s’i’ fosse acqua, i’ l’annegherei; s’i’ fosse Dio, mandereil’ en profondo; Cecco si immagina di essere altro da ciò che è e dice cosa, in tal caso, farebbe. L’esito è uno solo: distruggere il mondo intero bruciandolo, tempestandolo, affogandolo, sprofondandolo nel nulla.
Le cose non andrebbero meglio se Cecco fosse il papa o l’imperatore, le due supreme autorità della sua epoca: i cristiani finirebbero tutti nei guai, a tutti i sudditi sarebbe tagliata la testa: s’i’ fosse papa, sare’ allor giocondo, ché tutt’i cristiani imbrigherei; s’i’ fosse ’mperator, sa’ che farei? A tutti mozzarei lo capo a tondo. E i genitori, considerati da sempre il legame più sacro? Cecco ne auspica una fine prematura e terribile: se egli infatti fosse la Morte in persona, si recherebbe da loro per primi: S’i’ fosse morte, andarei da mio padre; s’i’ fosse vita, fuggirei da lui: similemente faria da mi’ madre.
Sono parole scandalose, orribili: Cecco non ha certo nulla da invidiare ai rapper oggi considerati maledetti. Ma c’è un però, che emerge alla fine. Cecco si è immaginato fuoco, vento, Dio, papa, imperatore, morte. Ma se Cecco fosse solo Cecco che farebbe? Lui stesso ce lo svela: S’i’ fosse Cecco, com’i’ sono e fui, torrei le donne giovani e leggiadre: e vecchie e laide lasserei altrui.
Dopo tanta distruzione, un obiettivo di ben più limitata portata, ma che per il poeta senese pare fondamentale: conquistare donne giovani e belle, lasciare ad altri quelle vecchie e brutte. Donne viste come oggetti da possedere, da prendere e da usare per il proprio divertimento, giusto per urtare ulteriormente la nostra sensibilità.
A partire da questi versi però molti studiosi ipotizzano che Cecco Angiolieri non fosse un personaggio così trasgressivo come si dice e come lui stesso racconta di essere. I suoi componimenti sarebbero dunque una scherzosa provocazione: satira, non cattiveria; gioco, non distruzione; violenza verbale, non reale.
Resta il fatto che Cecco ancora oggi affascina. Gli studenti lo apprezzano, si divertono: il poeta senese suscita interesse in tutte le classi, cattura l’attenzione anche dei più distratti. Perché? Io credo accada perché tutti noi abbiamo un carico di dolore, e quindi di cattiveria, che del dolore è figlia, da sfogare. Le parole sono potenti: un’invettiva può dare voce a questo dolore, incanalarlo, evitare che ci esploda dentro. Ed è bene così, perché il dolore che non riesce a trovare parole rischia di diventare malessere, agitazione e talvolta, purtroppo, violenza.
Tempo fa mi accadde di imbattermi in un allievo che amava i testi più duri, volgari e violenti della trap. Li ascoltava sempre, fiero. In classe però sembrava altrove: era distratto, come sconnesso da ogni attività. Quando proposi alcune ore di scrittura creativa, si mostrò impermeabile. Di fronte a ogni sollecitazione mi rispondeva: «Non so cosa scrivere». Se ne stava di fronte al foglio bianco; poi cominciava ad agitarsi, a disturbare i compagni, a dare fastidio alla classe. Mi irritava profondamente, lo ammetto. Provavo ad affiancarlo, a fargli domande, a dargli suggerimenti: mi pareva molto strano che non avesse nulla, ma proprio nulla da raccontare di sé, su nessun argomento. Mi pareva impossibile che, a sedici anni, nulla lo smuovesse da quel silenzio tempestoso.
Poi, un giorno, qualcosa scattò. Stavamo parlando di simboli e chiesi a ciascuno studente di trovare e descrivere un simbolo che lo rappresentasse. Quel ragazzo partorì, dopo un tempo infinito, uno dei suoi testi striminziti: scrisse che l’oggetto che più lo simboleggiava erano i pesi. Gli chiesi un chiarimento e lui me lo diede: sì, parlava proprio dei pesi per fare fitness. Fui stupito, ma non troppo: a sedici anni curare la propria estetica e desiderare muscoli scolpiti non è così strano. Mi misi a dialogare con lui: «Vai in palestra?». «No?». «Ci andavi, allora?». «No, non ci sono mai andato». «Ma allora perché hai scelto i pesi come tuo simbolo?». «Se non le spiace glielo scrivo». Non mi spiaceva di certo: «Fai pure!». Erano ore che tentavo di farlo scrivere, e forse il miracolo era avvenuto.
Non ci mise molto a finire il testo. Mi chiese di correggerlo insieme. Si sedette di fianco a me, mi porse il pc portatile che utilizzava, aperto su un programma di videoscrittura. Non dimenticherò mai ciò che lessi. «Amo i pesi perché mio papà faceva fitness in casa, prima che la mamma ci abbandonasse senza più tornare. Di lei non so più nulla. Non l’ho mai più vista da quella mattina in cui se n’è andata. Papà all’inizio taceva, poi il suo silenzio divenne rabbia feroce. Scoprii una persona che non conoscevo e di cui avevo paura. Un tempo papà era forte e dolce, il suo sguardo sereno mi rassicurava. Quello sguardo sembrava sparito per sempre. Ma non lo era. Lo rividi, quello sguardo, mentre gli assistenti sociali mi allontanavano da lui per portarmi in una comunità, con la prospettiva di mandarmi in affido in un’altra famiglia. Io mi identifico in quei pesi, perché mi ricordano un mondo sereno che non c’è più, un mondo in cui sapevo chi ero e su chi potevo contare».
Quando finii di leggere, avevo gli occhi lucidi: mi trattenni a stento dal piangere. Il ragazzo mi guardava stupito. Gli misi una mano sulla spalla: «Grazie per aver condiviso tutto questo». Non rispose, di nuovo assente. «Sei una persona di rara sensibilità. Spero che tu te ne renda conto. Spero che tu possa fare dono della tua sensibilità agli altri. E spero che tu possa sperimentare che la vita trova la sua strada, che c’è sempre il modo di essere felici», aggiunsi. Non disse nulla neanche stavolta: le parole erano tornate dentro a tormentarlo, pronte a uscire gridate sulle note della prossima canzone trap. Eppure, per il breve spazio di una pagina, il suo abisso era diventato dialogo, ponte, capacità di raccontarsi e quindi, in piccolissima parte, di provare a dare un senso a ciò che gli accadeva.
Ci sono molte allieve e molti allievi che, come quel ragazzo, con le parole non hanno un buon rapporto. Alcuni le usano come armi: provocano e bullizzano, sembrano non concedere niente, ma, appena scoprono che sei interessato a ciò che interessa loro, si aprono, raccontano una loro passione, non ti mollano più. Allora capisci che la loro rabbia è solo desiderio di essere ascoltati davvero. Oppure ci sono persone ferite dalle parole degli altri: un’amica che ti tradisce, un giudizio cucito addosso, una cattiveria gratuita. Così finiscono per usare le parole come difesa: studiano ossessivamente, non sbagliano una virgola, espongono ogni argomento con perfetta proprietà di linguaggio. Però non sanno esprimere un’emozione, non sanno dire se una poesia gli è piaciuta o meno: per loro tutto è prestazione; le parole si sono svuotate, sono diventata una corazza. A volte capita che persone così cedano di schianto: la tensione le travolge, lasciano la scuola da un giorno all’altro. La loro riga del registro, zeppa di nove e dieci, comincia a riempirsi di assenze, finché quelle assenze sono troppe e giugno è ormai arrivato.
La cronaca purtroppo spesso ce lo insegna: meglio una rabbia urlata che taciuta; meglio un clamoroso insulto che un esplosivo silenzio. A noi genitori, docenti, educatori resta il compito di aiutare le persone che accompagniamo a tirar fuori questa rabbia, a gestirla, a tramutarla in invettiva, in sarcasmo; magari addirittura in poesia. Come ha saputo fare Cecco Angiolieri, che ancora oggi ci permette di urlare la nostra rabbia insieme con lui.
Marco Erba, insegnante e scrittore
Avvenire, 10 dicembre 2024