Passano i giorni, la data del 14 settembre si avvicina, non diminuisce l’incertezza su quello che, da qui a qualche settimana, avverrà o non avverrà nelle scuole italiane. Si tratta di una sensazione ben nota a studenti e famiglie, a insegnanti e dirigenti. Non da oggi, e neppure da ieri, da quando cioè l’emergenza sanitaria scatenata dal Covid-19 ha fatto spuntare le ruote ai banchi, reso dinamiche le unità di misura e aperto il dibattito sull’obbligo di indossare le mascherine chirurgiche in classe. Sono almeno vent’anni, infatti, che la scuola italiana è diventata imprevedibile e non di rado imperscrutabile, inducendo un’assuefazione al contrordine che dispensa ormai dalla conoscenza dell’ordine in via di smentita.
Si cambia di continuo e sempre per un buon motivo, d’accordo: sempre per tenersi al passo con i tempi, per accettare una sfida, per essere competitivi e aggiornati. È una frenesia forse indotta dal passaggio di millennio, è il rincorrersi di riforme che ogni volta sembrano prescindere dalle decisioni prese solo qualche anno prima. Una colossale impresa bipartisan, nel senso che ognuno dei Governi succedutisi negli ultimi due decenni l’ha rivendicata e fatta propria, poco o nulla recependo di quanto era stato stabilito dal Governo precedente.
Quante volte, per esempio, è cambiato l’esame di maturità? Anche ad anno scolastico già avviato, come sappiamo, con il conseguente riconteggio dei crediti scolastici, con le ambiguità pressoché inestricabili nel rapporto con il mondo del lavoro (lo stage, l’alternanza), con le stesse prove d’esame continuamente rimesse a punto, rimodulate e sempre migliorate, si capisce. Perché ogni riformina è la migliore possibile, guardiamo avanti e non pensiamoci più. Fino alla prossima correzione di rotta, fino al prossimo provvedimento quasi definitivo. C’è poco da fare gli spiritosi, si dirà: la scuola è una priorità, va presa seriamente. Ora, 'priorità' è parola impegnativa, la si sente ripetere spesso anche in questi giorni, con il rischio che da una ripetizione all’altra della parola resti solo il suono e vada perduto il significato.
Così come è accaduto dal 2000 in poi, o da un po’ prima, in realtà, se si considera che le basi della poi riformatissima riforma Berlinguer risalgono al 1997. Appena insediato, ogni esecutivo annunciava l’intenzione irrevocabile di mettere mano alla scuola e, il più delle volte, si affrettava a mantenere la promessa. Fatte salve le motivazioni ideali, non era difficile intuire l’ombra di una qualche opportunità politica, magari nella direzione del rafforzamento o allargamento del bacino elettorale.
Niente di male, se tutti questi entusiasmi prioritari avessero prodotto un’edilizia scolastica più sicura o un precariato meno umiliante e aleatorio (la formazione dei docenti, com’è noto, è stata a sua volta caratterizzata da norme e procedure contraddittorie).
Purtroppo, però, non sono questi i risultati ottenuti. Per riassumere la situazione in un’immagine, basta considerare un semplice dato di fatto: non esiste oggi un cittadino italiano ventenne – poco più o poco meno – che abbia concluso il suo iter formativo così come lo aveva intrapreso al momento dell’ingresso nella scuola primaria. Non era una pretesa eccessiva, nonostante molto là fuori stesse cambiando. Anzi, la radicalità stessa delle trasformazioni in atto avrebbe dovuto indurre ad adottare una strategia il più possibile condivisa, alla quale si è preferito un tatticismo estemporaneo la cui estrema conseguenza è rappresentata dalla confusione di cui siamo spettatori in questi giorni.
Le responsabilità dell’attuale Governo sono fuori discussione e non risultano affatto attenuate dal senso di abnegazione abbondantemente dimostrato dalla stragrande maggioranza degli insegnanti già durante i mesi del lockdown. A loro, così come alle famiglie e – in primo luogo – agli studenti, adesso vanno date risposte chiare e indicazioni certe. Questa non è più una priorità: questo è un allarme.
Alessandro Zaccuri
Avvenire, 26 agosto 2020