Alle “esse” di “sicurezza e sostenibilità”, la scuola del futuro dovrà aggiungere anche la “o” di “organizzazione” e la “erre” di “ripensamento degli spazi per la didattica”. È un cambiamento di prospettiva a tutto tondo, quello proposto dal Rapporto sull’edilizia scolastica, che sarà presentato oggi pomeriggio a Torino dalla Fondazione Agnelli. Una rivoluzione che avrebbe per le casse statali un costo di 200 miliardi di euro: una montagna di soldi, pari a oltre l’11% del Pil ed equivalente a tre annualità dell’attuale spesa complessiva per l’istruzione. Ma lo Stato dovrebbe investirli, da qui ai prossimi anni, se vorrà mettere gli studenti italiani nelle condizioni di apprendere in edifici non soltanto sicuri e sostenibili dal punto di vista ambientale, ma anche belli ed efficaci sotto l’aspetto dell’innovazione della didattica.
«Proprio perché ambizioso, questo programma di riqualificazione dev’essere perseguito fin da subito e senza incertezze e cambiamenti di rotta nei prossimi anni», sottolinea Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli. Che ha quantificato l’investimento monstre prendendo a paradigma l’intervento di riqualificazione dell’Istituto “Enrico Fermi” di Torino, realizzato dalla Fondazione nell’ambito del programma “Torino fa scuola” e costato, a consuntivo, 8 milioni di euro: circa 1.350 euro al metro quadrato. Considerando che in Italia sono attivi 40mila edifici scolastici, corrispondenti a circa 150 milioni di metri quadrati, una loro ristrutturazione completa costerebbe appunto 200 miliardi.
Di motivi per avviare l’enorme cantiere ce ne sarebbero almeno 52, pari all’età media delle scuole italiane indicata nel Rapporto, che ricorda come oltre un terzo degli edifici risalga al quindicennio tra 1964 e 1979: il periodo che segue il baby boom. A quel tempo, ogni anno entrava in classe un milione di nuovi studenti, la stessa popolazione che invece la scuola italiana perderà da qui al 2030, come indicato dalle proiezioni più recenti. «Alla luce di questi dati – commenta ancora Gavosto – sarebbe velleitario immaginare per l’Italia un’importante stagione di nuove costruzioni. Nella maggioranza dei casi, gli studenti italiani nei prossimi 20-30 anni andranno a scuola in edifici costruiti da molto tempo, che hanno già visto studiare i loro padri e talvolta i loro nonni. Quindi abbiamo bisogno che ogni scuola del Paese – anche quelle che continueranno a essere ospitate in strutture di un secolo fa – sia insieme a norma di legge e sicura, efficiente, sostenibile, possibilmente bella, certamente decorosa, adeguata ad accogliere innovazione didattica». Visto il rigidissimo inverno demografico che sta investendo il Paese, il Rapporto suggerisce appunto al decisore politico di «concentrarsi sulla ristrutturazione e sulla riqualificazione di edifici esistenti», mentre la costruzione di nuove scuole dovrà essere l’eccezione. Questo, però, non significa rinunciare a una “scuola nuova”, rinnovata soprattutto nell’organizzazione e nella didattica.
Il metodo potrebbe essere quello utilizzato per la riqualificazione del “Fermi”, un istituto comprensivo con 206 alunni dalla scuola dell’infanzia alle medie inferiori, progettato nel 1961 e realizzato nel 1967. Dopo l’intervento della Fondazione Agnelli, la scuola, inaugurata lo scorso settembre, ha dodici classi con circa 300 alunni. E per dribblare il paradigma, ormai superato da tempo, della lezione frontale, per il “Fermi” è stata individuata la soluzione del cluster, uno spazio che comprende aule tematiche in cui gli allievi delle classi si recano a turno: il legame fra aula e classe si spezza, mentre il docente ha la possibilità di personalizzare lo spazio in cui opera in maniera permanente. Sempre all’interno di ciascun cluster si troveranno ampi spazi liberi per lo studio individuale o di gruppo, gli armadietti personalizzati e i bagni. Esistono poi ambienti comuni a tutta la scuola, come la mensa, la palestra e l’aula magna, nonché i locali per i docenti e il personale amministrativo. Dal punto di vista dell’innovazione didattica, al “Fermi” hanno prolungato l’orario scolastico, rimodulandolo con blocchi di più ore della stessa materia. «Fondamentale – conclude Gavosto – è stato il coinvolgimento dell’intera comunità scolastica, dai docenti alle famiglie. Senza questa condivisione, a monte dell’intervento, il rischio è che alla fine dei lavori il personale della scuola non sappia o non voglia utilizzare il potenziale didattico dell’edificio, perché non lo riconosce come suo o perché, pur apprezzando la novità, la sente calata dall’alto e comunque trova più semplice e meno faticoso proseguire con il vecchio modus operandi ».
Paolo Ferrario
Avvenire, 27 novembre 2019