Nella società della “conoscenza reticolare” e delle aziende 4.0, la scuola non può più fondarsi sulla triade spiegazione- studio-verifica, né sulla lezione frontale, un modello tayloristico vecchio più di un secolo, che è servito per far apprendere a una società essenzialmente contadina i rudimenti necessari al lavoro operaio alla catena di montaggio, ma che oggi non è più proponibile. La scuola del futuro dovrà essere differente, con classi più simili a laboratori, spazi per lo studio ma aperti al territorio, insegnanti non più mentori ma registi di un modello di didattica collaborativa e attiva, in grado di potenziare e sviluppare le competenze trasversali degli studenti.
Soltanto un sogno? Per certi versi sì, visto che il modello della lezione frontale è ancora il più diffuso e ben lungi dal pensionamento. Per altri no, dato che nei territori, dal basso, sta avanzando un nuovo modello di scuola, un movimento che si riconosce nel Manifesto delle Avanguardie educative lanciato quattro anni fa dall’Indire, l’Istituto nazionale documentazione, innovazione e ricerca educativa di Firenze. Partito sull’impulso dell’Istituto e di 22 scuole, oggi al Movimento aderiscono 815 istituti (217 del Nord, 199 del Centro e 399 del Sud e delle Isole), di cui 287 in città e 528 in provincia, 449 del primo ciclo e 366 del secondo. Tutte le scuole hanno firmato il Manifesto con i suoi sette punti: trasformare il modello trasmissivo della scuola, sfruttare le opportunità offerte dalle nuove tecnologie e dai linguaggi digitali, creare nuovi spazi per l’apprendimento, riorganizzare il tempo del fare scuola, riconnettere i saperi della scuola e i saperi della società della conoscenza, investire sul capitale umano ripensando i rapporti, promuovere l’innovazione perché sia sostenibile e trasferibile.
«Il modello centrato sulla classe ha fatto il suo tempo – spiega il presidente dell’Indire, Giovanni Biondi – . Oggi la società ha bisogno di “teste ben fatte”, in grado di maneggiare una molteplicità di linguaggi e intercettare le intelligenze multiple che laabitano. Invece, la scuola si fonda ancora essenzialmente su un unico linguaggio, scritto e orale, in uno spazio ben definito che è l’aula. Un modello superato e da abbandonare quanto prima se si vogliono rimotivare i ragazzi allo studio e contrastare la dispersione scolastica». Il riferimento diventa, allora, la “Galleria delle idee” per l’innovazione, dove sono raccolte le migliori esperienze, verificate sul campo, da un numero sempre crescente di scuole. Tessere di un mosaico realizzato con i progetti usciti dal Movimento, che ha l’ambizione di «rompere l’inerzia e innescare dinamiche di cambiamento e di “contagio” fra scuole».
Un esempio è la “classe capovolta” (flipped classroom), la cui idea-base è che la lezione diventa compito a casa mentre il tempo in classe è usato per attività collaborative, esperienze, dibattiti e laboratori e l’insegnante non assume il ruolo di attore protagonista, ma diventa piuttosto una sorta di facilitatore, il regista dell’azione didattica. Oppure l’“apprendimento differenziato”, dove «l’ambiente formativo è pensato e progettato per svolgere contemporaneamente attività diverse con l’obiettivo di promuovere un processo di apprendimento basato su esperienza, interdisciplinarità e ricerca». Anche le idee più innovative, non avranno però gambe per camminare fintantoché la scuola non sarà davvero autonoma. «Quella di oggi – ricorda Biondi – è soltanto di facciata. L’autonomia vera presuppone che la scuola assuma direttamente e paghi gli insegnanti (e, invece, la chiamata diretta è stata abolita), che sia proprietaria degli edifici in cui abita (che oggi sono degli enti locali) e che abbia potere decisionale sulla governance, perché non è possibile che un liceo di Milano abbia le stesse regole di uno di Palermo».
A una scuola «aperta ai linguaggi della multiculturalità, dove le tecnologie non siano più un optional », pensa il professor Pier Cesare Rivoltella, direttore scientifico del Cremit, il Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media all’Informazione e alla Tecnologia dell’Università Cattolica. «La mia scuola ideale – sottolinea – ha due soli cicli: il primo dai 6 ai 12 anni e il secondo dai 13 ai 18. In questo modo si supera l’idea anacronistica della scuola media “cuscinetto” tra le elementari e le superiori, permettendo tra l’altro agli studenti di entrare un anno prima in università. Inoltre – aggiunge – se vogliamo davvero alzare l’asticella della qualità, dobbiamo rendere più selettivo l’ingresso alla professione del docente, che non è un impiego statale come un altro. I professori devono essere assunti dal preside, devono essere pagati di più, almeno il doppio, ma devono anche lavorare di più a scuola, almeno 36-40 ore la settimana. Certo, per fare questo ci vuole coraggio. Vedremo chi l’avrà».
Paolo Ferrario
Avvenire, 4 dicembre 2018
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