È un pomeriggio di inizio luglio. Con le insegnanti della scuola dell’infanzia si tirano le somme dell’anno appena concluso: si fa una valutazione del percorso svolto con i bambini, si passa in rassegna il rapporto tra la scuola, le famiglie e la comunità e… si riflette su di noi insegnanti. «Sembra che il lavoro dell’insegnante non siamo ancora riusciti a definirlo» dice la maestra Cristina. Le risponde Simona: «È una professione, una vocazione, una missione…tutto insieme!». Forse «ci vorrebbe una nuova parola » conclude Francesca.
Si riflette, cioè si chiede a uno specchio di rimandarci la nostra immagine, quello che facciamo, quello che siamo. Per riflettere non l’aspetto fisico ma il nostro modo di essere serve però uno specchio speciale: la nostra coscienza (non a caso la tradizione parla della riflessione come dell’«esame di coscienza») e l’altro, che di fronte a noi ci rispecchia. Riflettere, nella pratica professionale, è pensare le proprie azioni e pensare i propri pensieri: passare in rassegna critica quello che muove in maniera esplicita o velata - il nostro modo di agire e il nostro modo di atteggiarci al mondo. «Insegnante è un saper essere» dice Luisa.
Per praticare la riflessione si mettono in parola i nostri gesti e i nostri pensieri, si affida al linguaggio il compito di dare un nome e dunque un senso a ciò che rischia di sfuggirci di mano, passando oltre. E una volta messi in parola azioni e pensieri bisogna passare in rassegna le parole stesse: come parliamo dei bambini? Che libri leggiamo loro? Il nostro è un linguaggio infantilizzato (le manine, i lavoretti, il cuoricino…) o un linguaggio da grandi? Che parole utilizziamo nei colloqui con le famiglie? Parliamo degli obiettivi didattici raggiunti o assumiamo uno sguardo educativo? Quali sono i termini che utilizziamo nelle progettazioni educative? Parliamo di programmi o di progetti, di apprendimenti o di insegnamento? Quando pensiamo alle parole possiamo fare un passo in più: pensare alla realtà che esse custodiscono. Lutero diceva che le parole sono il fodero che custodisce la verità: dietro il linguaggio e il vocabolario che utilizziamo si cela una nostra visione del mondo, visione che per un insegnante si traduce in pratica educativa.
«Non so quale sia la parola più giusta. È più facile dire quelle sbagliate» dice Caterina. È dunque necessario per un buon professionista fare chiarezza sul vocabolario della scuola: non per una correttezza formale, ma per essere accompagnati in una riflessione sul senso dell’educare. «Insegnare è un termine troppo freddo per un bambino di scuola dell’infanzia » dice Katia. Cosa significa essere scuola? E scuola dell’infanzia: che cos’è? In che cosa si differenzia dal vecchio asilo? E a scuola si insegna o si educa? Aver cura è un 'mestiere' per gli ausiliari? L’accoglienza riguarda solo il primo mese dell’anno scolastico o è uno stile? Integrazione o inclusione dei bambini con bisogni specifici? Il linguaggio della didattica: conoscenze o competenze? Griglie valutative o processi di valutazione?
«Fare scuola è un occuparsi: mi piace il termine perché abbraccia un po’ tutte le sfumature e tutto quello che abbiamo raccolto » conclude Marina. Le parole ci conducono all’essenza delle cose. E le parole della scuola ci riconducono all’essenza dell’atto educativo: un’essenza etica perché ha a che fare con il bene dell’altro.
La parola è il segno del senso (ri)trovato ma anche luogo della costruzione della comunità: Adamo, alla prima vista di Eva, parla; quando viene meno la capacità di comprendere le parole la comunità di Babele si scioglie e il progetto della torre viene abbandonato. Come docenti, come persone impegnate dentro la comunità scolastica e all’interno della grande 'comunità Fism' abbiamo bisogno di trovare un linguaggio comune, che ci permetta di portare avanti i nostri progetti, per non confonderci a vicenda e disfare gli uni il lavoro degli altri solo per una mancanza di comprensione.
Abbiamo bisogno di elaborare con gli educatori e gli insegnanti un «sapere pensoso », per costruire insieme una «comunità competente dei pratici».
Negli appuntamenti bimestrali di queste pagine cercheremo di approfondire di volta in volta una parola per/dell’educare. Il vocabolario che costruiremo sarà composto da parole che, secondo la bella immagine di Mortari, sono come la clorofilla: «Capaci cioè di captare la luce che viene dalle parole di altri per riuscire a strutturare una teoria in grado di dire le cose come stanno». Abbiamo bisogno di parole così, affinché il nostro educare possa essere generativo e perché il nostro agire come Fism faccia crescere foreste che diano nuovo ossigeno al mondo che verrà.
Ecco che entra Angelica, una bambina di 5 anni che interrompe la nostra riunione. Proviamo a chiederlo a lei: che cosa è una maestra? «La maestra ha le ali e insegna ai bambini a volare». Nulla da aggiungere. Molto su cui riflettere.
Marco Ubbiali
Avvenire, 31 luglio 2018